Motori, il faentino Giraldi: «La mia Dakar tra le dune, il buio e un piatto di spaghetti alle 2.30 di notte»

Romagna | 05 Febbraio 2023 Sport
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Tomaso Palli
Non è da tutti portare a termine la Dakar. Non lo è, a maggior ragione, se si è un rookie e se hai deciso, all’avvinarsi dei 50 anni, di darci del gas non solo per passione. Sono trascorsi 19 giorni da quando l’imprenditore faentino Jader Giraldi, oggi residente a Roma, ha tagliato il traguardo dell’ultima tappa della 45a edizione del Rally Dakar. A oltre due settimane di distanza, ecco alcuni segreti e retroscena della sua spedizione in terra saudita.
Giraldi, è riuscito nell’impresa.
«Contro ogni aspettativa. Un allibratore, in base a statistica e storia, mi avrebbe quotato 1:100000 perché un rookie nelle moto raramente la finisce al primo tentativo, solitamente impiega due o tre edizioni. Io ci sono riuscito».
Alla fine ha chiuso al 78° posto. Ed è andata anche piuttosto bene?
«Mi sono divertito tanto e, a mano a mano che si andava avanti, ho aumentato il mio passo avanzando in classifica. A un certo punto, avrei potuto farlo ulteriormente ma non mi avrebbe cambiato nulla, perciò, ho preferito preservare moto e corpo. Inoltre, sono entrato anche in una logica di assistenza e aiuto agli altri piloti: ho fatto prevalere lo spirito della Dakar tradizionale». 
A proposito, si è instaurato un bel rapporto con gli altri? 
«Un approccio umile era indispensabile viste le mie competenze ed esperienze. Come faccio nella vita, cerco sempre di offrire energie al gruppo, e di conseguenza attingere da esso. La Dakar è una gara dove, chi l’ha terminata, ha aiutato ed è stato aiutato. Ma senza fare un conto: l’economia del dono si riscuote solo in caso di necessità. Io, ad esempio, non ho avuto particolari problemi o bisogni ma sapevo che, grazie a questi crediti, sarei stato più forte». 
Un compagno di viaggio è stato Franco Picco, due volte secondo e una volta terzo nelle ventinove Dakar a cui ha preso parte.
«Era nella mia cameretta, insieme a Edi Orioli (vincitore di quattro edizioni, ndr). È stato fonte di ispirazione per me. Abbiamo spesso viaggiato insieme, così come fai con quelli che sono vicini a te in classifica, e ci siamo molto divertiti. È una persona di una simpatia pazzesca e poi, a dir la verità, avevo una sorta di riconoscenza nei suoi confronti, verso un atleta che mi ha ispirato. Inoltre, seguirlo tra le dune è un bel apprendimento».
Si aspettava fosse così la Dakar?
«A livello organizzativo, sembra di essere in un film. Non a caso, è l’Olimpiade del fuoristrada. Cura e attenzione per il pilota che ti rendono orgoglioso di far parte di questo… circo. A livello sportivo, pur avendo disputato gare con difficoltà simili, l’intero evento, tra prove e i trasferimenti, ti dà un’esperienza d’insieme difficile da immaginare se non la fai. È stata una Dakar divisa in due. La prima settimana durissima e, sinceramente, non pensavo fosse così difficile: piovosa, rocciosa, su un terreno enduristico e spesso trialistico. Nella seconda, invece, mi sono trovato più a mio agio: dune, sabbia… terreni dove ho più esperienza». 
Mai pensato di mollare? 
«Ci sono state tre o quattro situazioni in cui ho dovuto accendere tutto il mio immaginario di problem solving perché erano situazioni… previste ma che speravo non si verificassero. Ma non ho mai pensato di mollare, il pensiero era in una logica positiva: se passo questa, poi faccio quello che voglio».
Qual è stato il più complicato?
«Tappa 4. Avevo caricato involontariamente benzina con acqua e, quando davo gas, perdevo un 50% potenza che mi impediva di salire le dune grosse del mattino. E così, dovevo allungare di due o tre chilometri per poi rientrare con la bussola. Ho fatto gli ultimi 20 km al buio. In quest’ultimo tratto, c’erano altre dune molto pericolose e non potevo farle. Ho cercato così alcuni ragazzi sauditi, che di sera hanno l’uso di accendere falò nel deserto, per chiedere una pista parallela ed evitare le dune. Ne ho trovati alcuni, ci sono riuscito e ho evitato l’inferno. La Dakar è anche questa: pur di arrivare, anche a notte fonda, inventi strategie». 
Cosa ha provato una volta tagliato il traguardo?
«Sono arrivato insieme a Benavides e Price (primo e secondo, ndr). Tutti erano dedicati a loro e io mi sono trovato come a lato di un film, solo con le mie emozioni. Mi sono commosso ma senza piangere o ridere. E poi mi sono ripetuto la frase che mi ha accompagnato in questi anni: se tu una cosa la vuoi… la puoi».
La prima cosa al rientro in Italia?
«L’abbraccio con mia moglie e le mie figlie. Poi, aperta la porta di casa sulle 2.30 di mattina, ho invocato lo spaghetto di mezzanotte: avevo davvero voglia di uno spaghetto all’italiana». 
Pensa già al prossimo anno? 
«È un’esperienza molto onerosa, a livello economico e di tempo. La fai se hai voglia di andare in moto e hai motivazioni. Trovate queste, che in parte stanno già arrivando, mi piacerebbe rifarla. Ho un progetto («Dealing with the Unxpected» sui social, ndr) che in parte mi ha finanziato ma è evidente che, per poterla rifare, servano altri sponsor». 
Nel caso, cambierebbe il suo modo di farla?
«Non alzerei mai il livello delle aspettative sportive, ci mancherebbe. A parte i primi, gli altri partecipano per terminarla vivendo al massimo tre concetti legati alla moto, che sono fondamentali anche per me: il romanticismo, per la sfida quasi impossibile; l’amore per la libertà, perché stare in moto per 15 giorni in terreni così trasmette un impagabile senso di libertà; l’amore per la velocità».
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ORGOGLIOSO DI TE
Commenta news 07/02/2023 - GR
Ma che bello, complimenti furbetto.
Commenta news 07/02/2023 - Mody
Ciao ti seguivo tutte le sere su rally Pova...sei stato veramente bravo e modesto.ti seguirei volentieri alla prossima.ciao
Commenta news 06/02/2023 - Giorgio sacchetta
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