IL CASTORO | Autonomia differenziata: si rischia un Paese a più velocità. Parlano Cgil e Cobas Scuola
Simona Farneti
Oltre un milione e trecentomila, in poco più di una settimana. Questo il risultato della raccolta firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli, che reca disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Dopo avere ricevuto il via libera dalla Camera dei deputati, il disegno di legge è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 26 giugno 2024. All’eloquente risultato del referendum si aggiunge il ricorso diretto, sollevato davanti alla Corte costituzionale, da 5 Regioni. Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna, Campania e Puglia hanno rilevato, infatti, diversi profili di incostituzionalità nella norma da poco entrata in vigore.
A parlarcene è Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc Cgil, la «Federazione dei Lavoratori della Conoscenza» del sindacato: «Sfortunatamente, la legge Calderoli è declinata sulla scorta dell’articolo 117 della Costituzione - commenta Fracassi -, articolo che trovo, però, completamente in contrasto con i principi fondamentali della stessa Costituzione: mi riferisco ai primi articoli, che garantiscono a tutti le medesime opportunità, e agli articoli 33 e 34, che riguardano in modo specifico gli obblighi che ha la Repubblica rispetto al diritto universale all’istruzione. Peraltro, l’articolo 117 permette di concedere alle singole regioni particolari forme di autonomia, ma non si parla di una completa devoluzione di funzioni e poteri, perché, se così fosse, che ruolo avrebbe lo Stato?».
Che cosa comporta però, concretamente, la legge sull’autonomia differenziata? «Il ddl Calderoli - spiega Alessandro Palmi, membro dell’esecutivo nazionale Cobas Scuola - prevede la devoluzione alle regioni di 23 materie, di cui alcune assolutamente strategiche e fondamentali, come sanità, tutela ambientale e scuola» e di oltre 500 funzioni. Per quanto riguarda l’istruzione, infatti, «la definizione delle norme generali e delle disposizioni nell’ambito dei Beni Culturali, fino a oggi nella piena ed esclusiva disponibilità dello Stato, passa a legislazione completamente regionale, il che significa che ciascuna regione può prendere decisioni autonome quanto alla ripartizione dei cicli d’istruzione, all’orario scolastico e molto altro».
I dati Invalsi raccontano di un paese già spaccato. Possibile, quindi, che le differenze si trasformino in disuguaglianze? Per Fracassi sono già tali e «potrebbero assumere la forma di divari non più recuperabili».
Più scettico, invece, Alessandro Palmi, che mette in discussione l’attendibilità dei test Invalsi: «Si tratta di prove a quiz, che non hanno alcun valore dal punto di vista didattico. Registrano disuguaglianze strutturali che però non riguardano solo le differenze territoriali, ma anche quelle di estrazione sociale».
Sorge quindi spontanea una domanda: con la legge sull’autonomia differenziata sarà ancora possibile garantire pari opportunità a tutti gli studenti delle regioni italiane? «No, come non lo sarà garantire un’uniformità degli standard educativi - spiega Fracassi -, perché le regioni potranno occuparsi anche della ridefinizione dei curricola. Il rischio è che un’operazione di questo tipo frammenti un humus comune, potremmo infatti trovarci di fronte a 20 sistemi scolastici differenti. È sui banchi che si costruiscono la cittadinanza e il senso di appartenenza a una comunità nazionale, e - aggiunge la segretaria della Flc Cgil - nel momento in cui tutto ciò viene meno, non ha più senso parlare di nazione».
Per Palmi, convinto che una sperequazione tra le diverse aree del Paese sia già in atto, «l’autonomia differenziata peggiorerà la situazione, congelando, se non aumentando, le disparità attuali». Problematica, in questo senso, è anche la definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), che il rappresentante Cobas definisce «una mera illusione».
«A occuparsene è un comitato nominato dal governo, il Clep (Comitato per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni) - specifica Fracassi -. Per ogni funzione a cui deve essere associato un livello minimo di prestazione, il Clep stabilisce dei criteri che, ad oggi, sono ancora in fase di definizione. Sono tuttavia state pubblicate alcune anticipazioni e sono per noi pericolosissime, perché i parametri adottati si basano sul contesto del singolo territorio».
Gli studenti non sarebbero gli unici a rimetterci. L’autonomia differenziata potrebbe infatti generare una differenziazione di status tra i docenti del Nord e quelli del Sud, «a partire dal contratto - chiarisce Fracassi -. Gli insegnanti non saranno più dipendenti statali ma regionali, e ciò influenzerà anche la retribuzione, che potrebbe essere inferiore anche di fronte a una modifica del monte ore complessivo». «Saranno complessi, inoltre, i trasferimenti tra regioni» sottolinea Palmi.
L’autonomia differenziata comporterà una riduzione del budget annuale della maggior parte delle regioni, a eccezione di quelle più ricche. «Trovo che queste ultime non abbiano comunque nulla da guadagnare, in quanto componenti della comunità nazionale - spiega Fracassi -. Avere 20 sistemi scolastici differenti non giova a nessuno, ci serve una scuola che funzioni. Le regioni più ricche avranno certamente meno problemi di altre, ma nel medio periodo non verranno risparmiate. In più, nel momento in cui si devolvono risorse e funzioni alle singole amministrazioni regionali, queste ultime sono libere di stilare una lista delle priorità e non è detto che le regioni più ricche scelgano di investire nell’istruzione».
«Il nostro paese soffre di un problema endemico quanto al numero dei precari nella scuola - aggiunge Fracassi -. Tra personale Ata e docenti, parliamo di circa 250mila casi. In una situazione del genere, è chiaro che chi avrà meno risorse non potrà garantire tutte le immissioni in ruolo, che servono perché l’organico di diritto sia saturo. Credo che dietro a questo modello ci sia l’idea di privatizzare una parte di istruzione e di sostituire un contratto di lavoro con altre modalità meno costose, quali la partita Iva».
I sindacati Flc Cgil e Cobas hanno appoggiato la raccolta firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli, ma se Gianna Fracassi ricorda come «le cinque regioni abbiano fatto le loro valutazioni, prima di chiedere un intervento solo su alcune parti della legge», Alessandro Palmi evidenzia invece quanto le stesse non siano state coerenti nel tempo: «Non abbiamo fiducia nel ricorso diretto da esse presentato e ci pare paradossale che tra queste ci possa essere l’Emilia-Romagna, che a suo tempo è stata, insieme a Lombardia e Veneto, l’apripista nella richiesta dell’autonomia».
La risposta della Corte Costituzionale non si è fatta attendere e il ricorso presentato dalle cinque regioni è stato parzialmente accolto. In un comunicato stampa dell’agenzia Dire leggiamo che a essere stati ritenuti illegittimi «sono elementi della legge che consentirebbero trasferimenti generici di competenze, deleghe legislative senza criteri chiari per i Lep e la facoltà, invece dell’obbligo, per le regioni di contribuire agli obiettivi di finanza pubblica, rischiando di indebolire l’unità nazionale. La Corte ha inoltre ribadito che l’autonomia differenziata deve rispettare i principi di sussidiarietà e solidarietà, migliorando l’efficienza dei servizi pubblici e garantendo equità tra le regioni». Il testimone torna quindi nelle mani del Parlamento, chiamato a intervenire per modificare le parti della legge giudicate incostituzionali, al fine di garantirne la funzionalità in conformità ai principi della Carta.