IL CASTORO | Il regista Antonino Giannotta ha una sua ricetta per salvare il cinema italiano

Romagna | 15 Dicembre 2024 Blog Settesere
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Alessandra Berlini
Il cinema è oggi più che mai in una situazione di profonda crisi, vedendosi costretto ad affrontare distribuzioni di film mal gestite, diserzione delle sale e avvento delle piattaforme streaming. Molti giovani, cinefili e critici, hanno quindi deciso di farsi sentire in opposizione a questa tendenza. Tra costoro troviamo Antonino Giannotta, regista, critico e divulgatore cinematografico milanese di 29 anni, venuto a Faenza il 17 ottobre scorso per presentare il suo film di debutto Tre euro e quaranta. Divenuto noto grazie ai social, ha guadagnato la fiducia di molti, grazie alla frizzante personalità e al pungente umorismo. Si è poi impegnato, guidato dall’amore per il cinema, contro la chiusura di sale storiche e una distribuzione miope. In questa chiacchierata, Giannotta ci parla dei punti fondamentali che secondo lui hanno condotto il cinema nella situazione odierna e ci dice la sua su come si potrebbe provare a invertire la rotta.
Com’è iniziato il tuo percorso sui social?
«Per rabbia, perché si toccavano i grandi titoli mainstream, ma mancava un discorso sul cinema attuale. Uscivano tantissimi film meravigliosi di cui nessuno parlava, spesso perché non avevano una buona distribuzione. Ho deciso di creare un format che dia risonanza ai titoli che meritano spazio, ma che, per una ragione o per l’altra, non ne trovano. Sono stato costante e ho guadagnato la fiducia delle persone, che poi è tornata utile con le denunce fatte contro le chiusure dei cinema».
Quale credi che sia il principale problema nel mercato del cinema?
«Ci sono tante cose che non vanno. I progetti piccoli, che provano a fare qualcosa di diverso trovano davvero poco spazio e fanno tanta fatica a farsi largo. Non è vero che non escono delle pellicole belle, semplicemente non riescono a farsi vedere abbastanza. La distribuzione è sicuramente uno dei problemi più grandi per chi fa un film: crearne uno è fattibile, ma farlo vedere alla gente è più complicato».
Come mai, un tempo, il cinema in Italia funzionava e ora meno?
«Manca un ricambio generazionale, per via dei danni che ha fatto l’industria del cinema italiano in questi 30 anni. Si è prodotto tantissimo, ma un determinato tipo di cinema commerciale è sempre stato più distribuito di un altro. Non esiste più un equilibrio: o c’è il film che esce in centinaia di sale, oppure quello che esce in 30. Molte persone di provincia possono vedere solo i film nelle grandi catene di cinema e, di conseguenza, sentono parlare sempre solo degli stessi titoli. Il ricambio generazionale che ci doveva essere non c’è stato, perché è passata l’idea che noi facciamo solo un determinato tipo di cinema».
Le grandi personalità giocano un ruolo in questo panorama?
«Credo che manchi un impegno da parte dei grandi registi. Penso infatti che sia proprio da loro che dovrebbe partire la rivoluzione, iniziando a dimostrare interesse nel divulgare il cinema (non il loro, ma quello degli altri) e nel parlare di attualità attraverso le loro opere».
Cosa pensi dell’avvento delle piattaforme streaming?
«Credo che andare in sala sia un’esperienza totalmente diversa che una piattaforma streaming non potrà mai replicare. La visione di un film da casa trascura tanti aspetti e ne viene compromessa l’esperienza totale. La sala è impagabile perché non ci sono distrazioni, mentre a casa sì. Il problema è che va messo in conto il prezzo del biglietto, che come tutte le cose si è alzato e, ad esempio, per chi abita in provincia e ha a disposizione solo dei cinema con un biglietto fisso a 10 euro, andarci è difficoltoso».
Cosa ne pensi della critica cinematografica al giorno d’oggi?
«Sono dell’idea che bisognerebbe cambiare l’approccio. Molti criticano ancora prima d’aver capito cosa il film volesse comunicare. Prima di tutto va giustificato il perché un film sia stato prodotto e solo dopo si può criticare il resto. Il regista aveva un’idea quando l’ha girato e, se una cosa è in una certa posizione, è perché doveva essere così. Magari uscito dalla sala non ho provato nulla, perché il film parlava di un’esperienza che non mi appartiene o non mi ha trasmesso voglia di rivederlo, ma penso che la visione vada comunque ampliata, ascoltando altri pareri».
Quindi, cosa si potrebbe fare nel concreto?
«Penso che ogni cinema dovrebbe instaurare un dialogo con gli spettatori, facendo vera e propria istruzione. Basterebbero 5 minuti, prima della proiezione, per introdurre il film, in modo da arricchire la visione. Esistono già delle sale dove iniziative del genere vengono fatte, quindi non è impossibile. Sono molti i film che andrebbero introdotti e, con l’avvento dei social, ci sarebbero tante idee e vie per instaurare un rapporto più personale tra spettatore e opera».
Credi che andrebbe insegnato cinema a scuola?
«Penso che dal triennio in poi andrebbe insegnato, ma con cognizione di causa. Non sarebbe da considerare come l’ora di ricreazione in cui si guarda un film. Vorrei si facesse un lavoro sull’insegnamento del linguaggio visivo. Penso infatti che la grammatica dell’immagine sia da affrontare, non solo per sviluppare un miglior pensiero critico, ma soprattutto perché in questo momento storico stiamo comunicando molto di più attraverso l’uso delle immagini che a parole, tra social, foto, video e intelligenza artificiale. Porsi delle domande durante la visione di un film è estremamente importante, considerando l’enorme potere che può avere questo mezzo di comunicazione sulle persone. Non per nulla un tempo era uno strumento della propaganda».
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