Federico Savini
«In 25 anni da Mani Pulite, il l problema della corruzione non si è certo risolto, la ferita che si aprì allora tra politica e magistratura è tutt’altro che rimarginata e il sistema delle tangenti ormai è proprio “ingegnerizzato”. In quegli anni, però, trovò spazio anche la speranza, perché il sistema di potere che conoscevano si sfaldò. Il momento fu drammatico e vitale allo stesso tempo, questo lo rende interessante per uno sceneggiatore e credo che, insieme alle ripercussioni sul presente che ancora oggi viviamo, spieghi il successo di quello che è davvero stato un azzardo, in termini professionali». Il ravennate Alessandro Fabbri, classe 1978, si riferisce a 1992, serie tv di Sky da lui scritta insieme a Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, che è senza dubbio uno dei “casi televisivi” italiani (e non solo) di questi anni, e che martedì 16 aprile è ripartita sempre su Sky con il suo seguito, coerentemente e inevitabilmente intitolato 1993. Riconfermato lo staff (alla regia c’è Giuseppe Gagliardi e tra gli interpreti Miriam Leone e Stefano Accorsi, che è anche ideatore di un progetto in cui ha creduto tantissimo).
«Il 1993 in Italia è stato un anno molto ‘dark’, per così dire - spiega Fabbri -. Il processo Enimont, la caduta di Craxi, gli attentati mafiosi di Firenze, Roma e Milano, i referendum abrogativi, il black out a palazzo Chigi e tante altre vicende mai chiarite dipingono uno scenario fosco, che prepara il terreno in via definitiva alla fine della Prima Repubblica e alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Per i personaggi della fiction è un anno di battaglie, le cose per loro si complicano sempre di più. In un certo senso la vera protagonista della serie è la tv, attorno alla quale gravitano molti personaggi e che cambiò tantissimo in quegli anni, vedi anche solo lo storico dibattito tra Berlusconi e Occhetto da Mentana»
E’ passato un anno e mezzo da 1992, un tempo particolarmente lungo per lavorare a 1993?
«In verità no, in Italia non c’è ancora una consolidata idea ‘industriale’ della serialità televisiva, che permette di far uscire le serie di anno in anno, ma in realtà Sky lavora benissimo in questo senso».
Tanto che già si bisbiglia di una 1994…
«Noi la stiamo scrivendo ma non c’è nulla di ufficiale in termini produttivi. Fin dall’inizio pensavamo a una trilogia, il 1992 è l’anno della rivoluzione e il 1994 culmina in una sorta di restaurazione, torna un potere consolidato e comincia il cosiddetto ventennio Berlusconiano. Il 1993 prepara il terreno a tutto questo, per rimanere sulle similitudini con la Rivoluzione Francese possiamo dire che è l’anno del terrore…».
Per un ravennate raccontare il processo Enimont e la morte di Gardini dev'essere complicato. Come ci hai lavorato?
«Con molta attenzione, anche perché lavorare a Roma ha finito per rafforzare la mia identità ravennate. Ad ogni modo, 1993 rimane una serie con dei protagonisti di fantasia, che operano in ambiti specifici e si muovono nel quadro di uno scenario storico e politico molto preciso. Gardini meriterebbe una serie tutta sua, è una vicenda molto complessa, ricca di sfaccettature. Noi abbiamo utilizzato il punto di vista della procura di Milano in un flusso narrativo che scandisce soprattutto le tappe salienti di quegli anni, dal processo Cusani a Poggiolini, la mala sanità e tutti quegli eventi che hanno indignato l’opinione pubblica e cambiato la coscienza degli italiani».
Vedremo di più Berlusconi?
«Il discorso della discesa in campo è del gennaio del 1994, ma ovviamente sarà sempre più centrale. Berlusconi vide bene il vuoto politico creatosi nell’area moderata, cercò di riempirlo con altri ma finì per candidarsi in prima persona. Nel ’94 non gli andò davvero bene, cadde dopo pochi mesi e il famoso ‘ventennio’ che è seguito a tutti gli effetti non è stato una sua ‘dominazione’, ma di certo la sua influenza sul dibattito politico è stata enorme».
Anche questa serie sarà distribuita all’estero, come già 1992…
«E il riscontro all’estero è stato stupefacente, davvero oltre ogni più rosea aspettativa. La serie è stata trasmessa in oltre cento paesi, anche sul Netflix americano e poi in Europa e Sudamerica. Quando una serie tv è molto aderente a una realtà locale può raccontare storie individuali che restituiscono l’atmosfera di un Paese. In questo modo, anche se il pubblico non coglie tutti i riferimenti comunque scopre un mondo».
Un mondo ai più sconosciuto?
«Non del tutto, perché gli italiani sono ancora molto seguiti all’estero, rimaniamo un riferimento per l’arte e per lo stile. Quando realizziamo progetti particolari e insoliti abbiamo un credito di attenzione».
E quanto è insolito ideare una serie tv sulla più grossa cesura della storia politica italiana recente?
«Molto, e poi eravamo praticamente degli esordienti (non è proprio vero, Fabbri vinse il Campiello giovani a 18 anni e pubblica libri dal ’97, anche a due mani con Eraldo Baldini, con qualche precedente esperienza anche nel cinema e per la tv,
nda). Sapevamo che il soggetto era particolarissimo e l’abbiamo proposto con lo slancio dell’incoscienza ma Sky lo ha sostenuto con forza».
L’aspettativa intorno a 1993 vi rende le cose più facili o più difficili?
«Sono ottimista, la presentazione a Milano è andata bene. Penso che questa serie sia più bella della precedente, come sceneggiatori abbiamo maturato maggiore consapevolezza e compattezza, mentre Giuseppe Gagliardi in regia ha una mano sempre più sicura. Però non toglieteci l’incoscienza, per carità, è come l’aria in un lavoro fatto di scommesse, allergico all’abitudine. Ogni volta deve essere la prima volta».