Ilaria Mohamud Giama in soccorso ai migranti: «L’assegnazione di porti distanti allontana le Ong dal Mediterraneo»

Arua Charfi - Ilaria Mohamud Giama, ventinovenne faentina, laureata in Scienze politiche e ora studentessa di Geografia, da anni è impegnata sul campo nel supporto ai migranti, operando nei porti e documentando sia le difficoltà dei soccorritori che delle persone che arrivano. Di recente ha realizzato un reportage sugli hotspot in Albania, analizzando le politiche migratorie europee e italiane. Giama ha da poco tenuto una conferenza al liceo Torricelli-Ballardini, offrendo agli studenti un’occasione di confronto su un tema spesso frainteso e strumentalizzato. In questa intervista ci racconta la sua esperienza al porto di Ravenna dove, dal 31 dicembre 2022, sono state dirottate 17 imbarcazioni, 1.750 persone di cui almeno 300 minori.
Cosa l’ha spinta a diventare attivista e a concentrarsi sul tema dell’immigrazione?
«È un tema che sento mio, dato che ho un background migratorio. Nonostante non mi abbia mai coinvolto in prima persona, mi è sempre interessato. Negli ultimi anni, inoltre, la situazione è diventata sempre più mediatica e complessa e questo mi ha spinto a impegnarmi attivamente».
Può descrivere brevemente cosa accade nei porti italiani in cui opera?
«Tante persone cercano di raggiungere l’Europa, attraverso la rotta mediterranea, spesso dopo viaggi che iniziano molto prima delle coste del Nord Africa. Io opero al porto di Ravenna, che rappresenta una novità nel sistema di accoglienza: qui arrivano solo navi delle Ong, che negli ultimi anni sono state dirottate anche al nord Italia dal sud, dove invece arriva ogni tipo di imbarcazione. Dopo lo sbarco, le persone vengono identificate, ma qui non c’è un hotspot fisso, quindi questa procedura ogni volta si fa in un posto diverso. In seguito vengono trasferite in strutture di accoglienza, spesso anche fuori dall’Emilia Romagna».
C’è una collaborazione efficace con le istituzioni italiane ed europee?
«La collaborazione tra istituzioni e Ong c’è sempre stata e c’è tuttora, infatti qualsiasi Ong o imbarcazione in mare deve coordinarsi necessariamente con le istituzioni. Tuttavia, negli ultimi 10 anni, l’approccio è cambiato: l’ultima collaborazione proattiva, non criminalizzante per le Ong, è stata nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum, che era volta a coordinare tutte le navi del Mediterraneo, per portare a termine le missioni di search and rescue. Dal 2015 le politiche europee e italiane hanno avuto un approccio diverso: se prima si parlava di ricerca e soccorso, da quel momento si è iniziato a parlare di difesa dei confini».
Quali sono le principali sfide che affrontano gli attivisti nel lavorare in questo campo?
«La difficoltà più grande è che l’attivismo e le Ong sono sempre più criminalizzati, sia dall’opinione pubblica, influenzata da media e istituzioni, sia da scelte governative. In particolare la chiusura di Mare Nostrum ha segnato l’inizio di politiche che ostacolano il nostro lavoro».
L’Italia come sta gestendo l’arrivo dei migranti nei suoi porti?
«Innanzitutto è importante chiarire un concetto: si parla spesso di crisi migratoria ma il termine crisi, per definizione, implica una durata limitata, mentre questo è un fenomeno che va avanti da trent’anni. Il sociologo Douglas Massey sostiene che il genere umano è una specie migratoria e le migrazioni sono un processo naturale. Tuttavia i media hanno contribuito a rappresentare questo processo come un’invasione da fermare. Di pari passo va anche la legislazione, adottando delle logiche e dei dispositivi sempre più restrittivi e securitari, che portano a limitare la libertà di movimento delle persone. Queste misure restrittive, non solo non raggiungono gli obiettivi prefissati, ma hanno portato alla chiusura di frontiere e ad altri effetti indesiderati. Un esempio è il cage effect: le persone irregolari in un territorio tendono a non spostarsi, per paura di essere scoperti e delle conseguenze che ne derivano.
Ha accennato ai media: alcuni descrivono le persone che raggiungono le nostre coste con il termine migrante irregolare...
«Sì, il concetto stesso di migrante irregolare è una costruzione normativa: nessuno è irregolare per natura, ma lo diventa solo perché una legge definisce la sua presenza come tale. Un altro problema è che non ci sono vie legali per entrare in Europa. Oggi chi vuole farlo per motivi umanitari, teoricamente, dovrebbe chiedere un visto all’ambasciata di competenza, ma questa possibilità non esiste. Anche chi ha diritto allo status di rifugiato lo può ottenere solo dopo essere già arrivato, il che significa che le persone sono forzate a entrare irregolarmente. Tutto questo meccanismo si autoalimenta: trattando la migrazione come una crisi da contenere, si perpetua la percezione di crisi, senza trovare una soluzione strutturale».
Il Decreto sicurezza e il Codice di condotta sulle Ong hanno influito sul lavoro che fa nei porti?
«Sì. Prima dell’introduzione di queste politiche, non ero attiva nei porti, anche perché nessuno poteva immaginare che le ong potessero arrivare così a nord. Queste nuove disposizioni hanno quindi portato alla creazione di una sorta di comitato cittadino, che accoglie e supporta i migranti al porto di Ravenna: offriamo loro acqua e consegniamo a tutti una cartolina informativa, con una carta geografica per orientarsi e numeri utili. Per le Ong queste politiche hanno avuto un impatto importante: l’assegnazione di porti più lontani implica un enorme consumo di carburante, prolunga la sofferenza delle persone e soprattutto tiene le Ong lontane dal Mediterraneo, che è la zona più problematica. A conferma di ciò la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha annunciato che non opererà più nel Mediterraneo a causa dei costi elevati e dell’inefficacia operativa».
Quali sono le principali criticità legate all’elenco dei cosiddetti ‘paesi sicuri’ del decreto legge?
«Per rispondere mi rifaccio alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che spiega che le richieste di asilo devono essere valutate caso per caso e non in termini generali. Ciò significa che non si può stabilire a priori che un paese è sicuro per tutti ed è stato ribadito dalla sentenza della Corte di Giustizia europea del 4 ottobre scorso. Di conseguenza l’elenco dei paesi sicuri è in contrasto con le norme europee e ciò crea una problematicità. Questo è anche uno dei motivi per cui tutti i tentativi dell›operazione Albania sono falliti: perché non si rispettano i principi europei».
Quali difficoltà ha affrontato nel realizzare il reportage sugli hotspot in Albania?
«La principale è stata entrare in contatto con gli attivisti albanesi, pochi e diffidenti, a causa della scarsa accettazione dell’attivismo nel paese. Ciò ha reso complicato spiegare il nostro lavoro, anche perché molte persone erano poco informate sul tema. Non abbiamo avuto contatti diretti con le autorità locali, ma abbiamo parlato con lavoratori e abitanti, riscontrando difficoltà nel reperire informazioni. Inizialmente, solo la stampa italiana trattava l’argomento e molti, a Shengjin, vicino al porto, non sapevano nemmeno dell’esistenza di un hotspot».