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Il lughese Parmiani racconta le nuove strade del dialetto romagnolo, partendo dai social: «Quando Re Carlo disse “As’avdem a Ravenna”»

Emilia Romagna | 02 Marzo 2025 Cultura
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Elena Nencini
Gianni Parmiani è affezionato a re Carlo di Inghilterra anche se non lo ha mai incontrato: però lo ha doppiato in romagnolo. Un’idea nata quando ci  fu l’incoronazione del futuro regnante che ha avuto una valanga di visualizzazioni. Parmiani, nato a Lugo, ma residente a Bagnacavallo è autore di testi teatrali, appassionato di dialetto, attore e racconta cosa pensa del futuro del dialetto, tra social e scuole. Tra glii mpegni dell’ultimp periodo anche  l’incarico di direttore temporaneo del Teatro Rossini ancora chiuso.
Parmiani, la notizia della futura visita di Re Carlo e di Camilla al Museo Byron di ravenna i primavera le ha ispirato un nuovo video?
«Tutto è partito dai filmati del telegiornale quando Carlo firmò la successione al trono, con quel gesto di stizza. Quella smorfia ha fatto scattare in me un ricordo di quando ero a tavola con i nonni, ed il nonno si lamentava perché in tavola c’erano dei ‘rozzi’ e non riusciva a scrivere sul tavolo. La sua espressione mi fece sorridere e realizzai con Imovie un video doppiato in romagnolo, caricandolo sulla mia pagina facebook non avevo idea che avrebbe superato i 100mila commenti. Poi ne ho realizzati altri  e naturalmente non potevo esimirmi dalla notizia dell’arrivo di Carlo e Camilla a Ravenna».
Quali altri personaggi o film ha doppiato?
«Sono molto artigianale non sono un grande utilizzatore di social, ma i video di Carlo sono stati molto apprezzati da personaggi del mondo del teatro, anche se i miei doppiaggi non sono perfetti dal punto di vista del sincrono. E’ una sorta di esercizio teatrale e mi sono divertito con ‘Shining”, “300”, “Il gladiatore” pubblicati sulla mia pagina facebook . In “300”  il motivo della guerra tra persiani e spartani l’ho fatto diventare il ripieno dei cappelletti, con carne o battuto e formaggio. Mi ha colpito il numero di visualizzaioni ricevute e del fatto che una generazione, non legata al dialetto, tra i 30 e 40 anni li abbia visti, erano curiosi. Credo che questo possa essere uno strumento di divulgazione del dialetto».
Quale crede sia il futuro del dialetto, a questo proposito?
«Sul palco sono salito a 8 anni grazie alla passione di mio nonno e mio zio, con il dialetto ci sono nato e cresciuto, ma non ha mai inciso sulla perfetta acquisizione dell’italiano, non ho mai detto ‘ho rimasto’. Il mio professore del liceo, Savini, che adesso ha 90 anni, ci ha sempre detto che non bisognava vergognarsi del dialetto. Cercava di farci capire come la poesia dialettale o volgare fosse un patrimonio da conservare. Pensiamo a Tonino Guerra, Aldo Spallicci, Olindo Guerrini, autori che avevano recuperato il dialetto. Giovanni Nadiani usava un termine bellissimo “questa lingua strancalata” che poi ha cominciato ad assurgere agli onori della letteratura. Io credo che la salvezza per il dialetto ci sia ma non credo nella scuola del dialetto, nei corsi, negli spettacoli teatrali che creano dei ghetti. Credo nella possibilità di incontrare i ragazzi nelle scuole, con bambini di tante nazionalità, credo nella condivisione delle lingue minori, nel cercare le cose che accomunano le diverse lingue, i dialetti». 
Quale potrebbe essere il segreto per promuovere il dialetto?
«Ricordo con molto favore dei bambini senegalesi con i quali scoprimmo che la figura del ‘griot’, il loro raccontatore di storie, era uguale al nostro ‘fuler’. Così come trovammo un’analogia con il folletto dispettoso mazapegul: i bambini condividono le tradizioni, è uno scambio di conoscenze, di cultura su cui si devono fare i conti, in maniera accogliente, un arricchimento. Non bisogna creare delle riserve indiane, ma delle condivisioni, anche se quando scompaiono i ‘parlanti’ i dialetti si estinguono e rimane una lingua per studiosi o per appassionati».
E i giovani?
«E’ bello scoprire giovani che si interessano al dialetto come lo scrittore Jacopo Gardelli che per il titolo del suo romanzo usa la parola ‘Alsir’, un dialetto molto  antico, che significa ‘non ho desiderio’, ‘non ho tempo’, ‘non ho voglia.’ La sopravvivenza di una lingua non è dimostrata dalle  commedie in dialetto, ma quando uno spettacolo come “Zitti tutti” di Raffaello Baldini entra nella programmazione di un teatro nazionale allora quella è la strada della sopravvivenza. Se diventa la lingua di scena, lì si puo trovare il futuro. Poi tutto può servire, anche i video».
Le è stata affidata la gestione temporanea per il futuro del Teatro Rossini, c’è una data per la riapertura?
«Ho accettato un incarico di transizione, faccio parte del consiglio di amministrazione dalla precedente amministrazione e spero di riuscire a far ripartire il prima possibile il teatro. La priorità è la riconsegna di questo gioiello alla città. L’alluvione del 2023 è stata devastante per il teatro, il sotto platea - allora appena rifatto - è stato devastato, la situazione è ancora complicata. E’ poco più di un mese che ricopro questo ruolo e spero fra un mesetto di avere più chiara un‘ipotesi di riapertura basata non su delle speranze, ma sull’avanzamento dei lavori. Spero che torneremo ad essere un centro di produzione, ma vedo difficile organizzare una stagione per il 2026, siamo già in ritardo adesso. Vorrei però poter celebrare nel 2026 i 40 anni della restituzione alla città nel 1986, dopo che il teatro Rossini aveva rischiato di essere abbattuto. Sarebbe bello punteggiare il 2026 di avvenimenti all’interno del teatro restituito e aperto ancora di più alla cittadinanza, coinvolgendo anche realtà del territorio prestigiose».
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