Federico Savini
«È inutile nasconderlo, ci sono delle ambizioni dietro a un titolo del genere, me ne assumo la responsabilità. Al tempo stesso ho scritto questo libro perché ho sentito che, come scrittore, era un mio dovere morale e civile». Il nuovo libro di Maurizio Maggiani si chiama Il Romanzo della Nazione - «con entrambe le maiuscole» puntualizza l’autore – è uno dei casi letterari del momento ma non è «al momento» che punta. Lo scrittore ligure, da qualche anno trapiantato nelle colline tra Faenza e Modigliana, con questa epopea nazionale e familiare, che racconta dei suoi genitori come del Risorgimento, dell’Arsenale di La Spezia come della Resistenza, punta a un vero e proprio progetto fondativo, di cui Maggiani parlerà
lunedì 12, alle 21, all’Ala d’Oro di Lugo per il Caffè Letterario.
«Un vero e proprio “Romanzo della Nazione” avrebbe 200mila pagine e certo non potrebbe essere di un solo autore – spiega Maggiani -. Dovrebbe necessariamente essere un lavoro collettivo, perché è il popolo che decide, quando lo decide, di riconoscersi in una storia comune, facendo di sé una nazione. E’ il popolo che deve costruire un proprio mito a cui fare riferimento, un’epopea collettiva, tutto deve partire da un atto di volontà basato sulla condivisione di valori ed esperienze. Il mio può essere al massimo un incipit, fare una nazione non son mica bruscolini!».
Suo padre ci provò?
«Mio padre, morendo, ha portato con sé l’utopia di una generazione cresciuta con la guerra, la peggiore tra le tragedie. Salvatosi, insieme ad alcuni milioni di altri ha cercò di edificare una nazione con le proprie mani. Ma non ce l’hanno fatta, infatti viviamo in un paese, non in una nazione».
Un libro con un titolo così impegnativo si può considerare il compimento di un percorso?
«Beh, diciamo che il libro a cui tengo di più è sempre il prossimo, però questa volta avevo un dovere morale. E il trasferimento in Romagna mi ha aiutato a farne un libro. L’ho esplorata geograficamente, storicamente e caratterialmente per realizzare un reportage romanzesco sulla trafila garibaldina, Quel che ancora vive. Mi stupisce quanto il Risorgimento, che ai tempi tutti chiamavano “rivoluzione italiana”, da Mazzini alla regina Vittoria, ancora viva nel carattere e nell’agire dei romagnoli».
Cosa le piace dei romagnoli?
«Sono insurrezionali per genetica, difficili da gestire e trattare. A differenza di noi liguri, voi siete volti all’est, al nascere del sole. Si percepisce. Il romagnolo è anche sbruffone, certo, ma è uno che lavora duro e poi vuole spassarsela. Anche la vostra collina, dolce, pettinata, sembra fatta per Disneyland! Il 9 febbraio sulla spiaggia di Cervia centinaia di ragazzi ancora festeggiano la Repubblica Romana, è molto bello. Le cooperative dovevano nascere qui per forza, non ho mai visto un romagnolo mangiare da solo.; forse solo il prete di Sarna, ma poi qualcuno va a fargli compagnia! Il mito si costruisce condividendo una storia tra molte persone».
Quand’è che siamo stati più vicini alla «Nazione»?
«Nel 1848, quando a partire da Palermo l’Italia e poi l’Europa insorsero. La rivoluzione venne sconfitta definitivamente con la repressione dei moti milanesi nel 1898 e la sua memoria venne cancellata dai Savoia. L’altro momento chiave fu la Resistenza, che però non coinvolse l’intera Italia dato che al sud c’erano già gli Alleati. Mio padre la fece la Resistenza, suo nonno il ’48, dicevano le stesse cose: giustizia, libertà, uguaglianza».