«Dobbiamo guardare a mercati lontani, viste le contrazioni ormai croniche di quello domestico. Non escludo nuove alleanze e il rafforzamento di collaborazioni già esistenti per portare i prodotti romagnoli laddove da soli faremmo molta fatica». Sono queste per Raffaele Drei, presidente di
Agrintesa, le sfide che si giocheranno nel futuro dell’agricoltura romagnola.
Da che punto riparte l’agricoltura in questo nuovo anno?
«Il 2013 è stato un anno come sempre di luci e ombre, dove però le luci sono state più delle ombre se si guarda il contesto complessivo in cui stiamo operando, che mostra una situazione di una riduzione complessiva dei consumi in tutti i mercati più maturi e di gravi crisi economica e conseguente ridimensionamento del potere d’acquisto, che porta ad un’esasperata ricerca del primo prezzo a discapito della qualità. Questo penalizza l’agricoltura romagnola che fa della qualità il suo punto di forza. Detto ciò, le condizioni contingenti che si sono determinate durante l’anno hanno permesso una remunerazione soddisfacente nei settori ortofrutticolo e vitivinicolo. E’ chiaro che veniamo da alcune annate, come quella del 2011 per l’ortofrutta, disastrose e quindi è difficile fare confronti. Il neo più grande è ancora una volta rappresentato dalla seconda parte della campagna delle pesche e nettarine, dove le quotazioni si sono ridimensionate dopo un avvio che era sembrato promettente. Nel settore vitivinicolo siamo passati da una carenza nella produzione mondiale ad una abbondante in tutta Europa e ci troviamo in una condizione opposta a dodici mesi fa. Abbiamo però ancora almeno 11 mesi di campagna di commercializzazione e sembra che il vino di miglior qualità della Romagna si stia difendendo meglio di altre aree italiane ed europee dove le quotazione sono precipitate».
Quali sono le prospettive per il 2014, pur considerando l’imponderabilità della stagionalità?
«Il contesto lascia poche speranze, visto l’avvitarsi della crisi, ma credo che, come avvenuto nel 2013, saranno le contingenze a segnare il successo o il fallimento dell’annata. Indipendentemente da questo dobbiamo continuare a dotarci di quegli strumenti d’impresa e commerciali per uscire dal mercato domestico, come Italia ed Europa centro-occidentale, e andare verso nuovi mercati dove ci sono consumatori disposti a spendere qualcosina in più per un prodotto di qualità».
In questa direzione va anche l’accordo tra Apofruit e Terremerse che dal 2015 daranno vita ad un’unica op aperta anche ad altri soggetti. Come giudica quest’alleanza e siete interessati a collaborare come Agrintesa?
«La giudico positivamente perché vede rafforzare il tessuto commerciale emiliano-romagnolo. La collaborazione con queste realtà è un campo aperto, visto che già qualche momento di collaborazione l’abbiamo avuto in alcune società in cui abbiamo condiviso obiettivi comuni. Per questo mi viene da dire che la sperimentazione è già avviata e concreta. Pur essendo competitor abbiamo progetti comuni in varie società con Finav, New Plant e Made in Blu».
La tracciabilità è sufficiente?
«Nell’ortofrutta è già tutto tracciato, mentre nei prodotti trasformati ci sono ancora margini. Per avere questo tipo di garanzia il consumatore deve essere disposto a spendere di più».
Oscar Farinetti, uno dei soci di Eataly, sostiene che farebbe bene un marchio unico «Made in Italy» riconoscibile al posto di mille Dop e Igp. E’ d’accordo?
«Mi sembra buona dal punto di vista ideale e stimola il sentimento comune. In verità penso che creare un marchio ombrello che funziona è una questione seria e molto impegnativa. E’ molto difficile avere un sistema di controllo qualità e certificazione che porti alla realizzazione di qualcosa di questo tipo. Pertanto esprimo un po’ di scetticismo, pensando sia più percorribile una strada in cui le aziende certificano i prodotti mettendoci la faccia e garantendoli in primis. Questo penso che sia infatti il limite di molte esperienze vissute in questi anni da alcuni marchi tra cui alcune Igp che non sono cresciute perché la qualità dev’essere certa e riconoscibile dal consumatore e perché i consorzi Igp, per come sono strutturati, non hanno un reale controllo del prodotto e del marchio. La qualità dev’essere controllata, governata e gestita».
E qui si torna alle organizzazioni di produttori più ampie.
«La concentrazione delle imprese dà sicuramente la possibilità di avere politiche di marchio».
Che ruolo ha e avrà in futuro il biologico?
«Per Agrintesa è un prodotto in lieve crescita, soprattutto all’estero, lo consideriamo strategico, da avere, ma riteniamo che a oggi non ci siano le condizioni per diventare di massa».
I kiwi hanno avuto un calo di produzione causa batteriosi. Il futuro come lo vede?
«Dopo la prima sberla pesante, oggi viviamo quasi una fase di incoraggiamento. Abbiamo capito come controllare, seppure ancora non sappiamo come combatterlo. Siamo consci che il batterio richiede al produttore uno sforzo maggiore rispetto al passato. Pensiamo che oggi ci siano le condizioni per ricominciare a investire, cosa che un anno fa non pensavamo possibile».
L’agricoltura è fondamentale per mantenere il territorio collinare, ma spesso dimenticata. Com’è possibile farla sopravvivere e crescere?
«Il problema principale è l’assenza di acqua perché laddove si sono fatti investimenti in questo senso si sono ottenuti buoni risultati. Quindi, se vogliamo mantenere l’agricoltura in collina, dobbiamo investire in questa direzione. I temi sono molti, ma sicuramente hanno come filo comune il fatto che un po’ di sinergie pubblico - privato in più non guasterebbero».
Christian Fossi
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