Sa’ Stèvan, in arte Cristoforo, le confusioni del dialetto

Romagna | 26 Dicembre 2016 Cultura
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Federico Savini
Galeotta fu una vocale. Nella cultura popolare romagnola - parliamo del XIX secolo e probabilmente anche più indietro - il protomartire Santo Stefano veniva sistematicamente confuso con San Cristoforo, il «traghettatore» di Cristo, divenuto poi protettore dei trasportatori in genere. A «provarlo», in qualche modo, è un’orazione a Santo Stefano che ci è stata tramandata. La ragione della confusione sarebbe squisitamente romagnola, dovuta all’assonanza tra Stèvan (Stefano) e Stòvan (Cristoforo). Di questa singolare convergenza tra nomi tratta Gilberto Casadio nella rubrica che trovate in pagina e vale qui la pena confrontare le varie versioni del canto devozionale che circolano su importanti testi di storia e cultura romagnola.
L’orazione che trovate in pagina è quella pubblicata nella riedizione La Mandragora/Istituto Schurr del Saggio di canti popolari romagnoli di Benedetto Pergoli, in particolare nell’introduzione curata da Cristina Ghirardini. Fin dalla descrizione di Sa’ Stévan si capisce che anziché con il protomartire abbiamo a che fare con il gigante cananeo che trasportava i pellegrini da una sponda all’altra di un fiume. La sua conversione si deve all’incontro con un Gesù ancora bambino che però mise in difficoltà il gigante nel guadare il fiume. Il peso «innaturale» di quel bambino fu la prova della natura divina di Cristo, che si rivelò subito dopo a Cristoforo. Fero in latino è «trasportare» e pare che il nome del gigante fosse in realtà Reprobus e che non si trattasse – com’è facile intuire dal nome – proprio di un santo in gioventù. L’uomo che per primo «portò il peso del mondo sulle sue spalle» avrebbe poi conosciuto il martirio in Licia, dove si recò a predicare la fede cristiana, ma di questo ci sono poche tracce nell’orazione romagnola, giusto un vago riferimento ai peccati di gioventù e all’offrire la vita a Gesù, però subito dopo anche a san Pietro. A quel punto la scena si volge alla Passione di Cristo, che porta tre croci (anche Cristoforo era trasportatore…) e viene quindi crocifisso mentre la Madonna chiede chi l’abbia visto (Cristoforo diventa una sorta di testimone della Via Crucis). L’orazione in questione ha anche una certa importanza musicologica, dato che l’incisione realizzata nel 1975 da Giuseppe Bellosi a Bizzuno, con la signora Maria Baroni, confermerebbe la somiglianza tra la struttura musicale dell’antica orazione romagnola e i moduli definiti da Francesco Balilla Pratella nei primi anni del Novecento (ma Cristina Ghirardini nota come si tratti di un’eccezione, più che di una regola).
La versione di San Stevan pubblicata originariamente da Pergoli differisce di poco da quella qui riportata, oltre che per gli accenti (non c’erano regole di grafia romagnola alla fine dell’Ottocento) per un finale più «positivo», che anziché descrivere la morte di Cristo invoca la «grolia santa» per chi prega il Signore. Questa versione è praticamente uguale alla «prima lezione» delle cinque che Umberto Foschi attribuisce all’orazione di San Stovan (qui c’è la «o») nel suo saggio La poesia popolare religiosa in Romagna (Maggioli, 1969). Lo studioso di Castiglione di Cervia riparte da Pergoli e afferma a chiare lettere che «la preghiera è giunta ‘contaminata’, o meglio fusa con altre».
In particolare Foschi cita la San Iosef raccolta da Giovanni Bagnaresi e l’Orazione del Paradiso di Pratella, in riferimento al finale «alternativo» a quello qui pubblicato, che parla del Paradiso. La «quarta lezione» di Foschi è la più interessante: la fonte è Tino Babini e l’orazione parte dalla Madonna che dà al mondo un «bél babè, bianch e ros e rizulé», che poi verrà aiutato da Sa’ Stovan ad attraversare il fiume.
La versione raccolta dal citato Giovanni «Bacocco» Bagnaresi in Antiche orazioni popolari romagnole (anch’esso ristampato e arricchito da La Mandragora/Istituto Schurr) a proposito della Passione insiste più sui chiodi che sulle croci e in merito al sangue versato da Gesù introduce il misterioso verso «Tri usura, mel usura / pardunè la peccatura» che si ritrova in altri canti reperiti da Pratella e che il compositore interpretò come un’ammonizione rivolta al crocefisso.
Uscendo dal seminato religioso, Santo Stefano è, prosaicamente, il giorno che segue il 25 dicembre e si colloca quindi tra Natale e Capodanno. E’ dé d’Sân Stévan / tόtt i fiul a ca di pédar ci ricorda il Calendario di Baldini e Bellosi e in questo senso non è peregrino ricordare quel che annotava il funzionario napoleonico Michele Placucci quasi 200 anni fa, a proposito del periodo in oggetto, nel fondamentale saggio Usi e pregiudizj dei contadini della Romagna, praticamente il primo trattato di antropologia redatto in Italia.
Dopo essersi «dedicati agli esercizj di religione con grande ritiratezza» e dopo aver consumato cappelletti e chicchi d’uva («che influiscano ad avere danaro tutto l’anno»), secondo Placucci una volta festeggiato il Natale i contadini di Romagna «Finalmente indossano per uso indispensabile una camicia nuova, figurandosi scioccamente con ciò di risparmiarsi una malattia entro l’anno corrente». In fin dei conti, e considerando l’inatteso calo di appeal popolare delle vaccinazioni in questi anni, non è cambiato poi molto.
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