Vito torna in scena a Bagnacavallo e Faenza con il monologo «Estate nella bassa»

Romagna | 14 Luglio 2020 Cultura
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Federico Savini
«Quando sono tornato sul palco dopo tre mesi di lockdown ho visto un pubblico seduto, numeroso, distanziato ma con grande voglia di tornare a vivere. Glielo leggevo negli occhi e mi dà la riprova di quanto il settore culturale e dello spettacolo sia importante. Peccato che non tutti l’abbiamo capito, e certamente non nei tempi brevi in cui questa cosa andava compresa». Stefano Bicocchi, meglio noto come Vito, è uno dei primi grandi personaggi del mondo dello spettacolo a tornare in scena nel territorio dell’«interno» della nostra provincia, precisamente martedì 14 luglio alle 21 nel cortile del convento di San Francesco a Bagnacavallo e mercoledì 15 in piazza della Molinella a Faenza, come evento d’apertura della stagione estive che Accademia Perduta sta organizzando nei due comuni romagnoli. Lo spettacolo che Vito tornerà a portare sul palcoscenico è Estate nella bassa, di Maurizio Garuti, ennesima dimostrazione della capacità dell’attore bolognese di «ricreare un mondo» attraverso le parole e quel garbo nel dipingere vivide immagini di ricordi d’infanzia.
«Per la prima volta, dopo il lockdown - dice Vito - sono tornato in scena due settimane fa, a Fico, a Bologna, dove ho appunto visto un pubbliuo, di 400 persone, molto motivato nonostante le restrizioni».
Spettacoli persi in questi mesi?
«Non li sto neanche a contare, ho alle spalle tre mesi di fermo totale e vedo che adesso, che siamo nella cosiddetta Fase 3, comincia a muoversi qualcosa.
«Estate nella bassa» è uno spettacolo che come sempre farà ridere, ma probabilmente evocherà anche una certa nostalgia. Acquisisce un significato ulteriore portarlo in scena adesso?
«Sicuramente sì, avrà significati nuovi in questo periodo. Io, comunque, sul palco non parlerà del Covid, a parte una breve dichiarazione mia ma senza alcuna ironia. Non è un tema che faccia ridere, è stato e speriamo non sia più una grande tragedia. Estate nella Bassa non penso, comunque, che sia necessariamente uno spettacolo nostalgico, di quelli in cui non si fa che ribadire quanto si stesse meglio prima. E’ un guardare indietro nel tempo, certo, a quello che eravamo, con i nostri pregi ma anche i nostri difetti, su cui non lesinerò. Lo vedo come un modo per rivederci con la distanza e la lucidità che di fornisce il tempo, e di ridere di noi stesso, pensando a un tempo in cui per ridere e soprattutto per sorridere ci bastava un po’ meno».
Adesso, invece, cosa serve per ridere?
«Direi che ci vuole una verità, quella ci vuole sempre, è necessaria per entrare in sintonia con il pubblico. Io non faccio satira politica, parlo del quotidiano della gente. E quando vedo le persone annuire durante un racconto, magari già prima che diventi divertente, capisco che si stanno riconoscendo in quello che dico. Nello spettacolo, ad esempio, racconto le mie vacanze a Pinarella e scendo quindi su un terreno in cui molti si ritrovano. Questo crea un legame, una condivisione».
Che futuro di medio periodo intravede per il teatro?
«Giusta la domanda sul “medio” periodo, perché adesso c’è appunto stata una ripresa ma i 200 posti per sala chiusa rappresentano un limite preoccupante per tutto il mondo del teatro. Con questi vincoli non è possibile, per un organizzatore, pagare le compagnie minimamente numero e di conseguenza alla lunga, ma forse già alla breve, si finisce per scontentare il pubblico, perché il limite all’investimento comporta limiti anche alle possibilità di quel che puoi portare in scena. Temo che nel settore teatrale torneremo alla normalità solo con il vaccino per il Coronavirus, perché una parte pubblico ha ancora paura a uscire di casa. Spiace soprattutto perché, dal Governo, la nostra categoria non è stata trattata bene e i nostri problemi sono stati affrontati con ritardo. Sembra che non sia ancora chiaro, per tante persone, che siamo lavoratori come tutti altri e per qualche attore famoso che può senz’altro di stare qualche mese senza lavorare, ci sono tantissimi colleghi e poi tecnici, costumisti e maestranze varie che questi stop forzati li pagano caro. Dopo questo lockdown spero che sempre più persone capiscano il valore della cultura, che mesi e mesi di vetrine nei negozi guardate da fuori non sono un bell’intrattenimento, non arricchiscono dentro».
C’è qualcosa di positivo che di portiamo dietro dopo il virus?
«Onestamente non credo. Si è fatta tanta retorica su questo e in una prima fase, coi balconi colorati e tutto il resto, si può capire la speranza, ma penso fosse banalmente frutto della costrizione a stare in casa. Era un modo per sentirci più vicini. Non credo che gli italiani siano migliorati con queste esperienza. Non che dovessero farlo, beninteso, ma sono tali quali a prima, né peggiorati né migliorati».
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