IL CASTORO | La musica di oggi? Per il rapper Pathos è «Un fast food che dispensa distrazione e piacere rapido»
Greta Oretti
Oggi nelle canzoni italiane sentiamo sempre meno parlare di politica e di denuncia sociale. Nei generi più ascoltati, trap e pop, prevalgono tematiche legate all’amore, al successo economico, al disagio o alle sostanze stupefacenti. Negli anni ’60 e ’70 spesso le canzoni erano veri e propri veicoli di protesta nei confronti di una realtà percepita come ingiusta. Basti pensare a Fabrizio De André con la Canzone del Maggio del 1973, legata al movimento del maggio francese sessantottino, o all’opera di cantautori come Francesco de Gregori, Giorgio Gaber o Francesco Guccini. Negli anni ’90 e nei primi anni Duemila, erano ancora numerosi gli artisti politicamente impegnati: Caparezza, Willie Peyote e i 99 Posse, che in Rigurgito Antifascista del 1993 cantavano: «Frustrazioni accumulate in settimane ad obbedire, obbedire ad un potere strumentale al capitale».
Nel 2024 sono sempre meno i nomi che ci vengono in mente e sempre meno popolari tra il pubblico. Uno di questi è Pathos, alias Davide Paternò, un ragazzo del 1996, con 9567 ascoltatori mensili su Spotify. «Questo mondo non sa più cosa inventarsi per farmi del male [..] Mi racconta dell’Ucraina, di foreste, di corpi buttati / Morti come merda in una fossa poi dimenticati / Mi chiede perché noi italiani spostiamo lo sguardo / Solo per guardare una bolletta che è salita in alto», ci dice nella canzone Non so dov’è del 2023.
Pathos utilizza il rap, reso estremamente personale grazie al continuo rapporto con la sua interiorità e con i suoi sentimenti, per mettere in luce le problematiche della società, della politica e dei fatti di attualità.
Cosa ti ha spinto a fare musica?
«È stato semplicemente un bisogno di esprimermi. Avevo bisogno di un luogo di pace fra le guerre che sentivo e non è un caso che la mia prima canzone si chiami Locus Amoenus».
Come nasce il processo di creazione della tua musica?
«Non saprei spiegare come avviene questa ‘magia’. La mia passione è la scrittura, un processo che a volte dura due giorni, altre mesi. Da poco, nel mio cammino, ho avuto la fortuna di incontrare Feris, un artista geniale, che sta creando delle musiche diverse da tutto ciò che si sente in giro, con qualcosa di misterioso e divino che tocca determinate corde. Ascolto una sua base e nella mia testa scorrono migliaia di immagini, una riesce a fermarsi e a formarsi, comincia ad avere un’atmosfera sua ed è qui che inizia la magia. Ancor prima di scrivere, ho avuto questa ‘visione’ dall’inizio alla fine, che aspetta solo di essere messa in rima».
Perché nelle tue canzoni hai scelto di andare controcorrente rispetto alle tendenze dell’industria discografica e fare riferimenti alla letteratura, alla politica e all’attualità?
«Non credo sia stata una scelta quella di andare controcorrente, è semplicemente il mio modo di esprimermi, che forse si scontra con quello della maggioranza. Amo l’arte e racconto ciò che vivo ogni giorno e ciò che sento sbagliato, prendendo una posizione in merito. Nonostante siamo una minoranza, ci sono artisti che decidono di non voltarsi dall’altra parte, per esempio ho apprezzato molto il discorso di Dargen D’Amico a Sanremo su Gaza e sul silenzio, che, come ha detto, è corresponsabilità».
Secondo te perché gli artisti più in voga preferiscono evitare la politica nelle loro canzoni, scegliendo, piuttosto, temi legati all’amore, ai soldi, alle sostanze?
«Sono cresciuto con canzoni che parlano di sesso, soldi e droga come quelle di Notorious B.I.G. e ho superato il mio primo attacco di panico, quando ero piccolo, ascoltando Lollipop di Lil Wayne. Di certe canzoni amavo unicamente il ritmo. Poi ho scoperto che c’era anche un altro tipo di rap, che trattava sia temi leggeri, sia temi più seri e impegnati, e che voleva trasmettere dei messaggi, come Brenda’s got a Baby e California Love di 2Pac. Crescendo ho approfondito Caparezza, scoperto artisti come Mezzosangue, Rancore, Claver Gold, che trattavano e trattano ancora di politica secondo il proprio stile. Alcuni lo fanno con ironia tagliente come Willie Peyote. Probabilmente gli artisti più in voga scelgono di trattare i soliti temi, perché danno alla massa ciò che vuole: distrazione e piacere rapido in questo fast food che è la musica oggi, ignorando temi che potrebbero risultare pesanti o noiosi a un ragazzo più giovane».
Ritieni che l’allontanamento rispetto a temi più impegnati possa essere legato alla diffusione della trap negli ultimi anni?
«Nella descrizione della mia canzone Traprip qualcuno sul sito Genius ha supposto che la mia intenzione fosse quella di voler vedere morire la trap. È una delle “ferite da incomprensione” che sto imparando a lasciar andare. In questa canzone criticavo in modo aggressivo il contenuto del 90% dei testi dei trapper che ho ascoltato, caratterizzati da una monotonia paurosa di temi e da un impoverimento del linguaggio. Tuttavia, questo fenomeno avviene ogni giorno, anche in altri generi musicali, come il drill o il trill. Quando giri per strada ti accorgi che questo impoverimento è generale e la musica è lo specchio della società, quindi non credo che l’allontanamento da temi impegnati sia legato unicamente alla diffusione di un genere musicale».
La musica deve essere un canale per trasmettere un messaggio alla società o è piuttosto un mezzo con cui l’artista esprime la propria individualitàé? In altre parole, è necessario lo scopo sociale?
«Penso che possa e debba essere entrambe le cose. Di certe canzoni si amano esclusivamente il ritmo e le sensazioni trasmesse. Non esiste un modo giusto o sbagliato di esprimersi con la musica. Oggi di una canzone amo il messaggio e sogno che certi spiriti giovani, oltre a un comprensibile desiderio di rivincita, possano anche svegliare coscienze che sento assopite, accendere la curiosità e la voglia di lottare».