Tra MIlano e Longastrino è partita la seconda stagione dello strampalato podcast «post-rurale» di Nicolò Valandro

Romagna | 24 Ottobre 2021 Cultura
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Federico Savini
«A Milano è tutto già “occupato”. Gli spazi sono pieni di costruzioni già edificate. La pianura invece è una tabula rasa, lascia spazio all’immaginazione. E quella che circonda Longastrino ne lascia in abbondanza! Così, ambientare una serie piena di horror, azione e fantascienza in un paese come Longastrino mi è parsa una buona idea, che probabilmente nasce proprio per esorcizzare la “morte in vita” di questi piccoli paesi, la cui curva demografica è impietosa». Nicolò Valandro, in arte Johnny Faina, è uno da tenere d’occhio. Nato a Longastrino un po’ meno di trent’anni fa, lavora a Milano in ambito teatrale e da due anni cura uno dei podcast più interessanti, divertenti, letterari e strampalati d’Italia: «C’è vita nel grande Nulla Agricolo», del quale sta uscendo in questi giorni (su Spotify e negli aggregatori di settore) la seconda serie, dove si continua a raccontare del paese fittizio di Villamara, tra cani scomparsi, occultisti metallari, agronauti, alieni, case di riposo in cui si riposa molto poco e tanti misteri da risolvere. «Ogni due settimane pubblicheremo una puntata - spiega Nicolò -, per un totale di 10 episodi, come la prima serie. Chiuderemo a fine inverno e poi magari qualche puntata finirà anche sul palcoscenico».
Ma tu come arrivi al podcast? Non si può dire che sia al 100% il tuo mestiere ma il lavoro è assolutamente professionale.
«Nel 2012, appena maggiorenne, sono entrato in Radio Sonora, cosa che mi ha fatto continuare a frequentare la Bassa Romagna nonostante mi fossi trasferito a Milano per studiare. In 5 anni ho fatto varie trasmissioni ma in particolare quella che realizzavo con il rapper Max Penombra aveva un tasso di surrealismo già molto importante. Non c’era una cura dello storytelling paragonabile a quel che faccio oggi, ma era imprevedibile e la portavamo anche sui palchi, ad esempio al Cisim, con autentiche rock band che suonavano mentre facevamo cose tipo risolvere le diatribe fra punk e metal giocandocela a briscola… Poco prima che scoppiasse la pandemia, avviai il progetto Decameron, che immaginava proprio un’epidemia boccaccesca, nell’Indonesia di Komodo, e attraverso i social interagivo con il pubblico che mi mandava storie. Il protrarsi del lockdown mi ha portato a sviluppare compiutamente il progetto sul Nulla Agricolo, che in qualche modo era “in nuce” dal 2015. Nell’estate del 2020 all’Arena delle Balle a Cotignola lavorammo a una sorta di Voyager rurale in cui raccogliere materiale audio con interviste agli autoctoni;  e in settembre, quindi poco più di un anno fa, presentammo dal vivo il Nulla Agricolo, che poi uscì on-line come podcast prima di fine mese».
Il podcast è molto scritto e scritto molto bene. Quando hai capito che Villamara si prestava alla sonorizzazione più che alla scrittura e basta?
«Intanto mi piacciono molto i podcast, tipicamente anglosassoni, che sono narrativi senza essere proprio degli audiolibri. E ho capito che il podcast poteva tenere insieme le mie passioni. Mi piace scrivere, ovviamente, ma lavoro anche nel teatro, quindi comunicare attraverso parole, suoni e atmosfera è precisamente quello che volevo. Già facevo un monologo in stand up da mezz’ora in cui mescolavo chat reali, notizie false e quant’altro, con quell’interazione col pubblico che per me è fondamentale, ma la scoperta di un podcast come l’americani Welcome to Night Vale è stata la scintilla da cui è nato il Nulla Agricolo. In pratica racconta di una cittadina sperduta nella campagna yankee, che però si ritrova al centro di complotti mondiali e interplanetari. Ovviamente con molta ironia. Capii che volevo fare una cosa del tutto simile. Avevo già del materiale e l’ho trasformato in una serie».
Il podcast peraltro non lo fai da solo e una delle particolarità sono gli spettacoli dal vivo. Com’è la squadra?
«Oltre a recitare, io scrivo anche i testi, ma lo faccio insieme a Gianluca Dario Rota. Le musiche originali sono di Leonardo Passanti, gli artwork e tutte le grafiche di Federica Carioli e il master audio finale lo realizza un grande professionista come Gipo Gurrado. Quanto agli spettacoli, devo dire che il podcast dal vivo sta diventando il mio tipo di performance preferito. Mi piace molto portare nell’ambito scenico una cosa che è figlia al 100% del digitale. Ma anche l’inverso, sviluppare cioè una scrittura che sia tanto letteraria quanto colloquiale e “visiva” su un mezzo nuovo».
Il «Nulla Agricolo» prevede anche magliette, musiche, progetti grafici, persino audioguide. Quanto può espandersi?
«Beh, per esempio non escludo uno sviluppo editoriale. In fondo parliamo di un universo narrativo consolidato e condiviso col pubblico. I live e il merchandising sono anche forme di sostegno economico e i fan stanno rispondendo. Parliamo di un podcast che ha comunque fatto ventimila ascolti nella prima stagione. Poi sperimentiamo idee come lo “storytrekking”. Organizzammo una camminata notturna nelle nebbie di Longstrino, sul Reno, e venne gente anche da Brescia! Se è vero, come dicono, che i riminesi sono riusciti a vendere l’ombra, noi possiamo dire di aver venduto la nebbia!».
L’immaginario bassoromagnolo, per quanto reso strampalato, sembra avere appeal su un pubblico nazionale e cittadino. È in controtendenza?
«In linea di massima probabilmente sì, però se pensi all’horror e al fantasy la lezione di Stephen King è ancora dominante, basti pensare a una serie come Strager Things. Lo zoccolo duro degli ascoltatori è forse più in Emilia che in Romagna, eccettuato il lughese, e ci seguono molto dal Veneto, dal Friuli e da Milano. Credo esista un esotico fascino dell’ignoto dietro casa, e per chi è nato in provincia può esserci anche l’effetto nostalgia. Specie nei live salta fuori anche una certa romagnolità e la puntata sulla Mazurka del diavolo è la più ascoltata, ma credo sia più un fatto di ruralità. C’è qualcosa di uguale in ogni piccolo paese; non a caso è molto amato il personaggio del portapizze, perché in ogni piccolo paese ce n’è uno un po’ strano. E poi i contadini sono sempre sullo sfondo, il lavoro è gestito dalla Agrotech, una multinazionale tipo Amazon. Insomma, non raccontiamo nulla di bucolico, in realtà, la nostra è più una Romagna post-rurale. E piena di misteri che si nascondono appena fuori dalla tangenziale».
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