«Del maiale non si butta via niente» recita un antico proverbio contadino. Ogni singola parte di questo animale, soprattutto in periodi di carestia, veniva sfruttata con grande cura: dalle carni per i salumi al sangue per il sanguinaccio fino alle setole per i pennelli. Eppure nella nostra storia più recente abbiamo addirittura rischiato di buttare via l’intero maiale. E non un suino qualsiasi, bensì quello di razza romagnola, uno dei più pregiati.
Nel 1949 ne esistevano circa ventiduemila esemplari, ma l’importazione di razze più produttive e la diffusione degli allevamenti industriali portarono nel giro di pochi anni a un suo quasi totale abbandono. Se oggi possiamo gustare ancora le sue carni saporite, lo dobbiamo alla passione di un allevatore faentino, Mario Lazzari. Dai suoi dodici suini di razza romagnola, gli unici sopravvissuti, è partita nei primi anni Novanta un’azione di recupero che ha visto l’intervento, tra gli altri, dell’APA di Ferrara, del WWF Italia, dell’Università di Torino e dell’Associazione Razze autoctone a rischio estinzione. Per poco, dunque, non abbiamo cancellato un pezzo della nostra storia. Già nel II secolo a.C. lo storico romano Polibio scriveva che «la maggior parte dei suini macellati in Italia, per l’alimentazione domestica e degli eserciti, si ricavava nella Pianura Padana». In quel periodo i maiali erano allevati soprattutto allo stato brado insieme a ovini e bovini. L’incremento di aree incolte e boschive e il progressivo assorbimento delle abitudini alimentari delle popolazioni germaniche fecero sì che nel Medioevo il maiale assumesse un ruolo di primo piano nell’economia di questi luoghi. Alcuni documenti del Medioevo classificano addirittura dimensione e qualità dei boschi sulla base della quantità di maiali che vi potevano ingrassare. L’agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi, nel suo trecentesco Trattato dell’agricoltura, sottolinea che i luoghi migliori per l’allevamento dei maiali, in particolare quelli scuri, erano le regioni fredde con campi paludosi e abbondanza di frutti. L’areale particolarmente umido e ricco di vegetazione del ravennate era quindi l’ideale. L’attribuzione ufficiale del nome «Mora» a questa razza di suino, a causa del colore marrone scuro del mantello, avvenne solo nel 1942. Le sue caratteristiche? Taglia abbastanza elevata, testa ben proporzionata, orecchie piccole e portate in avanti, occhi neri a mandorla e linea dorso-lombare molto convessa, al punto che questi suini, in gergo, erano chiamati «gobbi».
Ancora oggi lungo la Strada della Romagna la sua carne è utilizzata, seguendo metodiche di lavorazione e conservazione tradizionali, per la produzione di salumi, oltre che per il consumo fresco. Una ricetta semplice e golosa? Braciole di mora romagnola leggermente infarinate e saltate in padella con un soffritto di scalogno romagnolo e un bicchiere di Sangiovese Superiore.
Il sapore intenso di questa carne troverà il compagno ideale proprio in un bel Romagna Doc Sangiovese Superiore. La nostra scelta va su «Novilunio» della linea Romandiola di Terre Cevico, un vino dai profumi intensi di viola e ciliegia con sfumature di vaniglia e un gusto pieno, asciutto e armonico: nel piatto e nel calice due protagonisti importanti della nostra storia.