San Lorenzo di Lugo, la Compagine di Gianni e Paolo Parmiani festeggia 50 anni

Romagna | 06 Dicembre 2023 Cultura
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Federico Savini
A proposito dei suoi lavori teatrali, Paolo Parmiani ci tiene a sottolineare che «la ricchezza della tradizione romagnola di cui si va in cerca in tanti miei testi non è mai campanilistica, ma un patrimonio che ci apre al confronto con gli altri, per un arricchimento di tutti», mentre Gianni Parmiani, raccontando di un progetto che lo ha di recente portato nelle scuole di Alfonsine, Savarna e Sant'Alberto, precisa che «mi sono ovviamente trovato in classi di ragazzi di cui solo una parte ha genitori romagnoli e il dialetto per loro è un oggetto davvero ignoto, ma la parte bella è stata proprio affrontarlo come un gioco, paragonandolo magari a termini di provenienza marocchina o senegalese con i quali si scoprono sorprendenti agganci e affinità; un modo per trovare un arricchimento per tutti».
Basterebbe questo per far capire quale garbo culturale, quale attenzione all’evoluzione della società e quale amore disinteressato per il dialetto romagnolo alberghi nei cuori e nei cervelli di Gianni e Paolo Parmiani, che giovedì 7 alle 20.45 festeggeranno i 50 anni della compagnia teatrale La Compagine nel teatro parrocchiale di San Lorenzo, con lo spettacolo a tema fiabesco Fôla Fulânta, che vedrà in scena una decina di componenti della ormai storica compagnia.
Che nacque nel 1973 dopo che Giuseppe Parmiani - fratello di Arturo che dirigeva a Bagnacavallo la storica Cdt La Rumagnola e che purtroppo qualche mese fa ha perso il mulino di San Lorenzo dovè si trasferì tanti anni fa e dove si formò la compagnia -, venne contattato dalla parrocchia della frazione lughese per organizzare «la classica recita dell’8 dicembre – ricorda Gianni Parmiani -. Io avevo 13 anni, ma recitavo nella Cdt da che ne avevo 8, mio fratello Paolo aveva più esperienza di me e trovammo subito altre persone, così mio padre mise su lo spettacolo, che era L’ anvóda cantarëna di Bruno Marescalchi, e da un tormentone di quello spettacolo che riduceva la famiglia a una “compagine nacque il nome della compagnia».
Impossibile, nello spazio che abbiamo a disposizione, dare conto della lunga storia di una delle compagnie più importanti, creative e lungimiranti del nostro territorio sul versante del teatro dialettale. Ciò che vale la pena fare è concentrarsi sulla loro peculiare ottica nell’affrontare un immaginario che da decenni affronta l’ineludibile tema del mondo che cambia, e insomma dell’obsolescenza.
«La nostra tradizione teatrale popolare gronda di situazioni fuori epoca – dice Paolo Parmiani -: il fiasco perennemente sulla tavola e il prete sempre in casa non ci sono più. In effetti, devo direi che gli spettacoli che ho scritto sono sempre stati innanziatutto “sul” dialetto, prima ancora che “in” dialetto, perché il focus era proprio capire quale rapporto possa esserci fra questa lingua, così ricca, e le nuove generazioni, che giustamente vivono il loro, di mondo».
«Nel corso di mezzo secolo – racconta Gianni Parmiani – è difficile dire quante persone siano passate attraverso La Compagine, anche perché spettacoli come Giuvanino di Marescalchi, nel 1975, coinvolsero decine di persone e intere famiglie di San Lorenzo, però ad esempio Mauro Dalprato e Bruno Nichele sono con noi dalla metà degli anni ’70 ed Elena Marescotti si è unita poco dopo. Credo che il suo carattere definito la nostra compagnia, che pure non era certo di novizi data l’esperienza di nostro padre e nostro zio, l’abbia assunto quando mio fratello Paolo è diventato autore della maggior parte degli spettacoli, dalla fine degli anni ‘70».
L’attenzione all’evoluzione della società, raccontata da una prospettiva così insolita come quella, per molti cristallizzata e polverosa, del teatro dialettale è diventato il terreno di lavoro della compagnia. «In parte abbiamo fatto un lavoro filologico – ricorda Gianni -, ad esempio recuperando testi come Maridév burdéll … maridév! di Euclide d’Bargamèn, direttamente dalla Classense, per scoprire che in origine parlava anche di Platone, ma poi per esigenze per così dire ‘commerciali’ le parti più intellettuali vennero eliminate. In questo modo abbiamo reso giustizia ad autori archiviati troppo in fretta, poi grazie a Paolo abbiamo sperimentato in varie strade, sempre tenendo presente che molto spesso nella cosiddetta ‘tradizione’ c’è già tutto quel che serve. Ad esempio Una stôria da pôch dell’89 era un testo quasi pirandelliano, La nöt che Garibaldi e vulè ins la lôna del ’97 è una specie di “Grande Freddo” e Angamùr ovvero i Sët Ingavégn de Biribéss del ’95 è tutto in rima e in versi con metriche precise, senza contare l’allestimento scenico minimalista. Ma c’erano altri autori di un certo livello, soprattutto negli anni ’80; penso a Lauro Timoncini o a Luigi Antonio Mazzoni. Dopo questa fase, in cui il teatro romagnolo ‘di tradizione’ guardava molto alla contemporaneità ma era condizionato dal pubblico e dagli spazi in cui si recitava, è arrivata nei grandi teatri la poesia straordinaria di Raffaello Baldini, con un attore eccezionale come Marescotti e poi le Albe, Elena Bucci, Daniela Piccari e tanti altri professionisti hanno riscoperto il dialetto in chiave scenico-poetica, grazie anche ad altri autori come Spadoni o Gabellini».
«Abbiamo portato in scena anche del teatro civile - aggiunge Paolo Parmiai -, vedi Méllötzéntnuvântöt, con il quale nel 2015 raccontammo i moti bagnacavallesi di fine ‘800. E poi io sono molto legato all’aspetto fiabesco, come nello spettacolo mio che preferisco, L’ amor de sêl del ’99, nel quale è centrale l’idea di una Romagna che sta svanendo, ancora più esplicita in  Pòrbia del 2008 o in Fafì da la Pàja del 2001. Sono storie accomunate dalla speranza di ritrovare una romagna ‘autentica’ che però non troviamo più, in una ricerca inesausta ma anche impossibile, probabilmente, da completare con successo».
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