Russi, Andrea «Pojana» Pennacchi a teatro con «Mio padre. Appunti sulla guerra civile»

Romagna | 11 Dicembre 2023 Cultura
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Federico Savini
«Esaminare le realtà dei fatti per quella che fu, alla luce delle ottime ricerche di cui disponiamo oggi, e anche dalla lontananza storica ed emotiva dalla guerra, non significa mettere in discussione l’ammirazione, che era e resta assoluta, per quello che hanno fatto i partigiani, per come dal loro sacrificio sia nato un Paese migliore. Anche e soprattutto perché quelle conquiste rischiamo di perderle». Andrea Pennacchi, ai più noto come il Pojana che racconta senza filtri l’evoluzione antropologica del Veneto su Propaganda live, ma che da decenni in realtà batte i teatri di tutta Italia, riesce a toccare anche un tema come la Resistenza con quel misto fra delicatezza e durezza che gli è proprio, e che forse è davvero il più indicato per affrontare uno snodo-cardine della nostra Storia, che reclama rigore e rispetto.
Pennacchi sarà in scena al teatro Comunale di Russi giovedì 14 dicembre alle 20.45 con «Mio padre. Appunti sulla guerra civile», spettacolo in tour al 2020 che lega insieme l’avventurosa vita del padre di Pennacchi, che passò buona parte della Seconda Guerra Mondiale in un campo di prigionia austriaco, tornando a casa in modo rocambolesco, con l’elaborazione del lutto del genitore da parte dello stesso Pennacchi, che apre una riflessione sull’identità personale e della nazione, denunciando il fatto che «Quelli che ne avrebbero dovuto parlare hanno taciuto…».
«È proprio questo il nucleo dello spettacolo - conferma Andrea Pennacchi -, la parte più rovente. Mio padre, in effetti, aveva delle resistenze a raccontarsi, specie la parte più drammatica della sua vita. Io sapevo un po’ di cose, probabilmente le davo pure troppo per scontate. Ero ammirato dal suo trascorso ma non gli ho mai chiesto molto…».
Il rammarico è sia del figlio che del cittadino italiano?
«Sì, con le inevitabili differenze del caso. Avevo una trentina d’anni, non posso considerarlo un trauma giovanile ma ero legatissimo a lui e la sua memoria fa parte della mia identità, quindi è stata una gran botta. Quanto al cittadino Pennacchi, questa storia rientra nel bilancio della guerra, una cosa che abbiamo raccontato troppo per stereotipi. Non si è riflettuto abbastanza sull’eredità del Dopoguerra e oggi molte discussioni e molti problemi discendono proprio da questo».
Oggi si pone con urgenza il problema della memoria, anche perché non abbiamo quasi più testimoni di quel periodo. Come dovremmo parlarne?
«Abbiamo dato troppe cose per scontate anche perché ci fu un vero e proprio accordo, tra i politici dell’epoca che si apprestavano a ricostruire le macerie del nostro Paese, sul fatto di lasciarsi alle spalle quanto prima i rancori della lotta partigiana, per il bene della coesione sociale. È un pensiero che si può comprendere, ma si arrivò velocemente al paradosso che, toh! Tutto d’un tratto nessuno era mai stato fascista in Italia! C’era una vecchia battuta di Dino Durante, che proiettava in pubblico questa foto di Mussolini a Padova durante un’adunata pazzesca, prima dell’ingresso in guerra, e con una freccetta lui indica una persona in mezzo alla folla definendolo il solo responsabile dell’entrata in guerra dell’Italia… Questa negazione di quanto accaduto non ci ha fatto bene, mio padre era nato in un Paese che era fascista per la stragrande maggioranza, c’è poco da fare. In Germania la riflessione è stata diversa, hanno affrontato un processo di consapevolezza nazionale che è stato doloroso ma ha anche dato grandi frutti. Ci sono ottime ricerche storiche, oggi, dovremmo leggerle e usarle di più per non perdere la memoria. Nello spettacolo mi sarebbe piaciuto inserire anche un pezzo su un compagno di scuola di mio padre, che a differenza sua entrò nella Decima Mas; avrebbe arricchito il quadro storico reale».
Sopravvivere alla guerra, per molti, è stata questione di fortuna. Ma ricostruire il Paese è stato un merito di quelli che c’erano. Ha poi trovato, dopo la morte di suo padre, qualche insegnamento su come «si mettono a posto le cose»?
«La ricontestualizzazione del racconto della guerra non mette minimamente in discussione l’ammirazione che ho per mio padre e per i partigiani. Lui riuscì a perdonare chi l’aveva condotto nel campo di concentramento, ma ovviamente non dimenticò mai. In questo modo contribuì a costruire un’Italia migliore. E questo genere di esempi oggi ci servono tantissimo».
Nei suoi spettacoli la musica dal vivo è sempre grande protagonista. Come mai?
«È fondamentale, perché solo metà del racconto è fatta di parole. Quello che non riescono a dire le parole lo spiega la musica, specialmente quando hai la fortuna di lavorare con dei musicisti così bravi da centrare perfettamente l’anima di un racconto».
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