Romagna, la guida «sentimentale» ai chioschi di piadine di Maria Pia Timo

Romagna | 05 Settembre 2021 Cultura
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«Io lo vedo come un libro di racconti. La guida ai chioschi è uno spunto per parlare del “pianeta piadina”, con le storie di chi nel chiosco ci ha passato la vita, la loro professionalità, l’orgoglio per la qualità artigianale e la consapevolezza dell’importanza della tradizione che portano avanti». Maria Pia Timo ha colto con acume e sensibilità una cosa che a molti sfugge, quando si parla di piadine: la vastità del tema. Tanto che, nella prefazione di Piada e piadina. Guida sentimentale a chioschi, botteghe e baracchine di Romagna (Polaris, 170 pagine, 15 euro), Renzo Bertaccini arriva a dire che quasi quasi si tratta di un libro di «filosofia». Di sicuro la Timo (che sul versante editoriale aveva dimostrato pari sensibilità su temi attigui, vedi il libro sulle azdore che ha dato seguito al fortunato programma tv La Vespa Teresa) ha colto l’enormità delle questioni sollevate dalla piadina e la ricchezza che sta dietro al più iconico tra i cibi tipici romagnoli. Questo libro parla di tradizioni, etnografia, storie imprenditoriali, femminismo pionieristico, architettura e colori, righe e tinte unite, disciplinari e marketing territoriale, incoming turistico e commercio, inventiva culinaria, storie di lievi (e quindi fondamentali) distinguo territoriali (lo spessore!), ma pure la geografia, marittima o collinare, che accompagna il nostro spuntino, il pranzo o la cena. Storie di vita e di passione, con l’ironia che ti aspetti ma senza la necessità di infilarcela ad ogni costo (cosa che, da parte di una che di umorismo se ne intende, denota garbo e rispetto).
«Tutto è nato quando mi hanno detto che guide simili non ce n’erano - spiega Maria Pia Timo -, se non piccoli inserti».
Non c’erano precedenti, ma questa non è comunque la classica guida…
«No, non è affatto esaustiva e non era quello che mi interessava. Sono le storie il succo del libro, una cinquantina di racconti che descrivono un pianeta».
Ma alla fine si giunge alla sentenza su cosa sia meglio, se la piadina grossa o la sottile?
«Ovviamente no, ma si capiscono anzitutto i perché. In riviera il metodo di cottura in origine era diverso da quello dell’interno. A Rimini la si accartocciava con l’uovo e con il pesce. La nonna di Paolo Cevoli la usava come un piatto, in un modo che ricorda certe cucine africane o sudamericane. E soprattutto ho scoperto che i discrimini sono tantissimi, al di là dello spessore».
Cos’altro fa la differenza?
«Ad esempio disciplinari e regolamenti, che cambiano da comune a comune. Questo condiziona, perché se non puoi fare altro che la piadina ti ci impegnerai al massimo. Poi ci sono differenze fra artigiano e commerciante, vedi anche solo il fatto che molti chioschi non possono avere il bagno. Cambiano le grandezze, le pietanze somministrabili e tanto altro…».
E le origini della piadina?
«Sono più misteriose di quanto non si direbbe. L’Artusi non ne parla, segno che se anche esisteva era ritenuta un cibo molto povero. Il figlio di Terzina Lunardini dice che la madre rideva dei disciplinari, perché gli ingredienti dipendevano dalle disponibilità; lei ad esempio usava lo strutto semplicemente perché ce l’aveva. In certi posti si fa col latte, che altrove è ritenuto una bestemmia, e nel lughese non sono rare le uova. Le credenze sul modo migliore per impastarla e cuocerla si tramandano di gestione in gestione».
Ecco, e dalle case ai chioschi come ci si arriva?
«Il chiosco vero e proprio arriva negli anni ’60, ma pare che lo smercio abbia avuto origine nel cesenate, con la chiusura delle miniere di zolfo e della ditta Arrigoni. In pratica dalla crisi, che portò le donne di campagna a prendere il bus, portando con loro gli ingredienti, per poi allestire una brace in dei panchetti in città. I panchetti cesenati sono gli antenati dei chioschi. C’è una forma di emancipazione femminile legata alla piadina, perché non solo le donne sono state le prime a venderla, ma con l’impiego massiccio di donne anche altrove, in casa mancava il tempo di preparare la piadina e quindi il prodotto divenne molto richiesto. Tra l’altro, insieme alla piadina si vendevano pizza fritta, mistocchine, tortelli alla piastra ma anche i cocomeri…».
La piadina evolve con le abitudini?
«Direi proprio di sì, da buon cibo povero si adatta ai tempi, alle possibilità e alle esigenze. Ora la si prepara in un’infinità di modi - e anche le specialità che segnalo per ogni chiosco lo testimoniano -, ma da una parte i disciplinari impongono rigori, tipo che a Cervia la piadina con la salsiccia è ammessa da pochi anni, e dall’altra ci sono mille teorie su come vada preparata e con quali ingredienti. Ad esempio il crescione per eccellenza è quello con le erbe, perché la mozzarella era rara in Romagna nel passato e per molti la piadina era il cibo del venerdì, proprio perché la si accompagnava con erbe e formaggio. Quello che non cambia è il lavoro: ci sono impegno e passione a non finire nei chioschi. Mi colpisce sempre la storia dei piadinari sposati che trovarono, come unico modo per passare del tempo insieme, quello che lavorare entrambi nel chiosco». (f.sav.)

 
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