Ravenna, voci sulla tragedia del Rojava: "I curdi si rialzeranno"
«Sono in ansia davanti a questa tragedia, all’ennesima guerra in un territorio che soffre da troppi anni, alla gente che muore». Birgul Goker è una giornalista turca di Istanbul arrivata a Castel Bolognese quindici anni fa. Il suo sguardo sul Rojava, l’amministrazione autonoma della Siria del nord-est considerata una delle quattro parti del Kurdistan, dove è avvenuto il ritiro delle truppe americane e dove la Turchia ha lanciato l’offensiva militare, è più che mai coinvolto.
LA GIORNALISTA TURCA
«Al momento – racconta la donna - lavoro come free lance, principalmente per un giornale online di opposizione al mio Paese: è davvero terribile assistere a questa operazione militare nel nord-est della Siria. Ma voglio sottolineare che Erdogan è un burattino degli Stati Uniti, che da solo non decide nulla e che se ha fatto partire l’offensiva, è perché gli americani lo hanno manovrato in tal senso. Certo, da turca mi sento male, non è piacevole per la reputazione del mio popolo. Ma non bisogna mai dimenticare che questa nuova guerra è strumentale, serve a distrarre i popoli dai problemi, serve a creare un nuovo rischio sul quale concentrarsi». Per Goker è difficile immaginare gli esiti. Ma la speranza resta: «La questione curda è sempre stata utilizzata a seconda delle convenienze, i curdi sono il capro espiatorio di tutto. Non a caso si sono alleati, a seconda dei casi, con gli americani, con i russi, con i siriani. Io continuo a sostenere che i problemi si possono risolvere anche pacificamente».
L’ATTIVISTA PER I DIRITTI
Anche Luca Dubbini, ravennate, attivista per i diritti umani, è molto preso dai fatti che stanno avvenendo in queste settimane: «Io sono stato due volte nei territori del Kurdistan turco, prima nel 2015 e poi nel 2016, insieme a Uiki Onlus, l’Ufficio informazioni del Kurdistan in Italia, e a Mezzaluna rossa Kurdistan Italia. Sono arrivato in due vesti: per portare medicinali e altri aiuti ma anche come osservatore politico dopo che l’Hdp, il partito maggioritario tra i curdi turchi, aveva avuto un grosso successo ma era vittima della repressione da parte di Erdogan. È stata un’esperienza toccante, non avevo mai visto un teatro di guerra e quello lo era, né più ne meno: vedere da vicino i muri con gli spari e i segni delle bombe, così come toccare con mano come si organizza un popolo che vive in guerra, ti entra senz’altro dentro». Emotivamente, però, Dubbini non è rimasto sorpreso dall’attacco della Turchia nel nord-est della Siria: «Chi conosce bene quella situazione politica, che ho studiato e approfondito a lungo prima del mio primo viaggio di solidarietà, se lo aspettava. A livello umano è tristissimo vedere questa tragedia in atto: le perdite tra i civili, in particolare, non possono non colpire. Ma io, con un lume di speranza, spero che i curdi sappiano gestire la situazione a loro favore, riuscendo ad affermare i loro diritti».
L’EDUCATRICE INTERDETTA
«Mi sento le mani legate, ancora per un anno e due mesi vige su di me l’interdizione a entrare in Turchia dopo che venni sottoposta a stato di fermo, nel marzo del 2016, alla festa del Nevrotz nel Kurdistan turco. Sto male, molto male». Sono le parole dell’educatrice ravennate Raffaella Veridiani, anche lei nel Kurdistan turco con Dubbini sia nel 2015 che nel 2016: «La prima volta siamo partiti a solo un mese di distanza dalla tragedia di Suruc, dove erano stati uccisi 33 studenti in un attentato. Dovevamo essere mille, siamo andati in cento. Entrambe le missioni mi hanno fatto crescere moltissimo sia dal punto di vista umano che politico. Quando sono tornata, non nego di avere provato un vero “mal di Kurdistan”». Tra le tante cose toccanti, la visita ai rifugi sotterranei dei guerriglieri e delle guerrigliere curdi: «Incredibilmente, sotto terra c’era una stanza adibita a biblioteca dove abbiamo persino trovato le “Lettere dalla Sicilia” di Antonio Gramsci, al quale è anche stata dedicata una scuola che abbiamo realizzato a Kobane, il centro della battaglia dei curdi contro l’Isis». Emozionante anche l’incontro con le donne: «C’era chi portava il velo e chi no, chi fumava e chi no. E il tema dell’omosessualità era trattato con una serenità e una libertà che noi ci sogniamo. La loro lezione di vita è una bastonata nei denti, la loro forza pure. Parliamo di persone che non sanno se arriveranno a sera ma che sono in grado, come ho visto con i miei occhi, di organizzare una manifestazione ambientalista sul lago di Van per evitare quello che è successo nel 1963 al Vajont, in Italia. Persone alle quali manca l’acqua ma che ti offrono comunque da bere nelle case bruciate, quando arrivi». Gente così, secondo Veridiani, va aiutata senza se e senza ma: «Se potessi, partirei adesso. Non so a fare cosa ma partirei».