IL CASTORO | Effetto Matilda: scienziate in un angolo della storia, tra patriarcato e razzismo

Assy Ndiaye
Il mondo della scienza è sempre stato in prevalenza maschile. Sono davvero poche le donne scienziate o lo sono solo quelle considerate degne di un riconoscimento? Il caso più noto, che troviamo anche nei libri di testo del liceo, è quello di Rosalind Franklin, la scienziata che condusse ricerche sulle immagini di diffrazione dei raggi X, fondamentali per la scoperta della doppia elica del Dna. I suoi dati vennero utilizzati da James Dewey Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins per formulare l’ipotesi sulla struttura del Dna nel 1953, che li portò a vincere il premio Nobel nel 1962, senza che il ruolo della Franklin venisse riconosciuto. La studiosa venne a mancare nel 1958, per via di un tumore alle ovaie correlato alle sue ricerche, quindi non poté rivendicare i suoi meriti e la verità si scoprì solo nel 1968.
Questo è soltanto uno dei molti casi in cui le donne non hanno ottenuto il giusto riconoscimento per le loro ricerche scientifiche, oppure per i loro contributi a ricerche di altri scienziati uomini. Tale fenomeno è definito Effetto Matilda ed è stato descritto, per la prima volta negli anni ’90 del secolo scorso, dalla scienziata Margaret W. Rossiter. Il nome è un omaggio a Matilda Joslyn Gage, autrice del saggio Woman As Inventor, pubblicato nel 1870 sulla rivista North American Review. In questo lavoro, Gage narra la storia nascosta delle scoperte scientifiche e delle invenzioni di donne rimaste nell’anonimato.
Elena Cattaneo, scienziata e senatrice a vita, tratta questo tema nel suo libro Scienziate. Storie di vita e di ricerche (Raffaello Cortina editore, 2024). In un’intervista rilasciata all’Unione Sarda il 10 novembre scorso, alla domanda sulle ragioni di questo fenomeno, la senatrice risponde: «Le cause sono da ricercare in stereotipi che tutti, spesso inconsapevolmente, portiamo avanti perché ci sono stati trasmessi dalle generazioni precedenti».
Una ragione può essere il razzismo, come nella storia di Enrica Calabresi. Dopo una laurea in scienze naturali a Firenze, Calabresi, nel 1924, ottenne l’abilitazione alla docenza e tra le sue alunne va ricordata Margherita Hack. Dal 1918 al 1921 fu segretaria della Sei, Società entomologica italiana. Lavorò anche come assistente all’università di Firenze e come collaboratrice dell’enciclopedia Treccani, ma dovette lasciare il suo posto al conte Lodovico di Caporiacco, uno studioso mediocre di ideologia fascista. Dal 1936 al 1938, insegnò Entomologia agraria alla facoltà di Agraria dell’università di Pisa, però, a causa delle leggi razziali, nel settembre del 1938, venne sospesa. Nel dicembre dello stesso anno, cominciò a lavorare nella scuola ebraica di Firenze, insieme ad altri professori che si erano organizzati per evitare che i ragazzi, espulsi dalle scuole perché ebrei, perdessero l’anno scolastico. Nel giugno del 1939, le venne revocata l’abilitazione alla libera docenza e fu cacciata anche dalla Sei. Calabresi si rifiutò di scappare in Svizzera ma, nel gennaio del 1944, fu condotta nel carcere per detenute politiche di Santa Verdiana e, per evitare la deportazione su uno dei treni diretti ad Auschwitz, decise di togliersi la vita, avvelenandosi con il fosfuro di zinco.
Un’altra delle tante cause dell’effetto Matilda è il pregiudizio sul ruolo che la donna deve ricoprire nella società. Esemplare in tal senso è la storia di Mileva Marić. Nata in Serbia nel 1875, grazie al padre, poté frequentare un liceo di lingua tedesca e poi studiare in Svizzera, dove le donne avevano accesso all’università. A Zurigo si diplomò e superò l’esame di ammissione al Politecnico, dove, nel 1896, incontrò Albert Einstein. Tra loro nacque un legame profondo, basato sulla comune passione per le scienze, e si sposarono nel 1903, nonostante l’opposizione delle famiglie.
Dopo il matrimonio, Marić sacrificò le sue ambizioni per sostenere la carriera del marito, dedicandosi alla famiglia. Einstein, unico della sua classe di laurea a non ricevere un’offerta accademica, accettò un impiego all’Ufficio brevetti di Berna, ma negli anni successivi la sua carriera decollò: divenne professore a Berlino, dove iniziò una relazione con la cugina Elsa, che portò al divorzio. Marić, senza laurea e indipendenza economica, rimase con i due figli e ricevette il denaro del Nobel di Einstein nel 1922, come stabilito negli accordi di divorzio.
Nel 1986, la pubblicazione delle lettere tra Einstein e Marić, in cui lui usa il noi parlando dei suoi studi dei primi anni del Novecento, generò varie ipotesi su un possibile contributo di Marić alle sue scoperte. Nel 1990, il tema divenne oggetto di un convegno scientifico e i media iniziarono a raccontare la storia di una scienziata geniale oscurata dal marito. Tuttavia, studi successivi e una biografia del 2019 non confermano prove concrete di un contributo scientifico da parte di Marić. Resta, però, una figura simbolo: una donna brillante e preparata, penalizzata dai pregiudizi e dalle restrizioni di un’epoca in cui le opportunità per le donne, in ambito accademico, erano fortemente limitate. Come ha scritto Ann Finkbeiner su Nature, Marić è stata «una donna intelligente che ha lavorato duramente per ottenere un’istruzione impegnativa e ha sofferto pesanti contraccolpi personali, oltre alla ferita di essere il sesso sbagliato all’inizio del secolo sbagliato».
Queste storie meritano di essere raccontate. «Credo che sia essenziale avere dei modelli da cui trarre ispirazione -afferma Elena Cattaneo-, specie nei confronti delle nuove generazioni: è difficile essere quel che non si vede. Il mio libro Scienziate ha l’ambizione di offrire alle studentesse di oggi nuovi modelli di riferimento a cui ispirarsi, almeno finché ogni donna potrà realizzarsi senza la necessità di cercare un modello al di fuori di sé. La donna di scienza -conclude- non è un’eccezione ma può diventare la regola».