Ravenna, una nuova accoglienza ai tempi del Covid

Romagna | 17 Aprile 2020 Cronaca
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Barbara Gnisci
«Dove sta Mamadou?», chiede dal balcone la piccola vicina di casa di Margherita De Punzio e Michele Muscillo, dopo che hanno deciso di aderire al progetto «Refugees Welcome Ravenna» e di ospitare un rifugiato: «Mamadou è arrivato da noi proprio nel momento in cui le restrizioni sul Coronavirus sono diventate più limitanti con il decreto nazionale del 9 marzo - spiega Margherita - ed è cominciata una convivenza molto più intensa di quella che avevamo immaginato». Ma neanche ora Margherita ha dubbi nel voler accogliere Mamadou e si muove con la stessa determinazione con la quale ha preso la decisione qualche mese fa: «Quando ho letto un articolo che parlava di una convivenza a Ravenna - spiega Margherita - mi sono subito iscritta a “Refugees Welcome”. Quando sono tornata a casa, ho condiviso l’intenzione con Michele, il mio compagno, e con nostro figlio Francesco. Entrambi ne sono rimasti entusiasti. Credo che sia un passaggio fondamentale far conoscere queste iniziative mediante i giornali, ma conta molto anche il passaparola. Dopo qualche giorno dall’arrivo di Mamadou, un mio amico di Brindisi al quale avevo raccontato dell’esperienza intrapresa, mi ha riferito di essersi iscritto anche lui alla piattaforma. Sono convinta che “pubblicizzare” queste accoglienze non serva a far cambiare idea a chi la pensa in maniera differente, ma può far riflettere tutte quelle persone che nutrono valori solidali e altruistici». Mamadou Sow, 21 anni, originario della Guinea Konakry e in Italia dal 2017, è stato precedentemente accolto in un Cas (centro di accoglienza straordinaria) del territorio, dove ha avuto la possibilità di imparare la lingua italiana, di lavorare come aiuto cuoco, seguire un corso come costruttore di carpenteria metallica, operatore del verde e di prendere la patente per il muletto: «Sono molto contento di essere a casa di Margherita, Michele e Francesco - racconta - e sono anche preoccupato per il Coronavirus, perché la malattia non guarda in faccia a nessuno. Ma stare qui e condividere il mio tempo con loro mi rasserena. E poi adoro giocare con Francesco». Ed è lo stesso Francesco a confermare: «Quando potremo tornare a uscire, non avremo così tanto tempo per giocare, perché io ho tanti impegni con il basket, la scuola, la musica. Un po’ mi dispiace, ma spero comunque di poter tornare a fare le altre cose».  In casa, ci si tiene compagnia 24 ore su 24: «Ogni tanto ricordiamo a Mamadou - continua Margherita - che questa non è la normalità. E sebbene ci sia più tempo per conoscerci, si tratta di un tempo fittizio. Le persone le conosci guardandole vivere,  osservando come si comportano con gli altri e in generale come si approcciano alla realtà circostante. Questo è un tempo sospeso, ma nonostante tutto, va molto bene e le piccole perplessità iniziali su come sarebbe stato si stanno dissolvendo con la convivenza stessa. Anche quelle paure legate al contagio del virus si sono interrotte nel momento in cui Mamadou ha smesso di lavorare». Si cucina, si guardano film e si usano le tecnologie come in qualsiasi altra casa ai tempi del Covid-19: «Quelle che emergono sono anche le differenze - racconta Michele -: Mamadou ha un approccio alla vita alternativo al nostro. Sin dal modo di raccontare la sua storia emergono priorità e punti di vista differenti. Emana una calma, uno stare nel presente, forse per fatalismo o per le esperienze che ha vissuto, che restituiscono al tempo un altro significato».  Curiosità, libertà e autonomia sono le parole d’ordine di questa accoglienza: «Sin da quando è entrato - continua Michele -  abbiamo cominciato a mandare domande di lavoro per la stagione che verrà, con la speranza che l’emergenza Coronavirus passi presto e che si possa tornare alla normalità.  Noi non pensiamo alla scadenza della nostra convivenza, ma ci auguriamo che possa finire quanto prima perché ciò vorrebbe dire che il progetto ha funzionato, che Mamadou ha raggiunto la sua indipendenza». E questo è l’intento del giovane: «Mi va bene qualsiasi occupazione – specifica Mamadou - ma punterò soprattutto al settore metalmeccanico, perché un lavoro specializzato potrà darmi più garanzie».  Nel frattempo, con tutti i limiti imposti dal periodo, si è provato ad estendere l’accoglienza fuori di casa: «Quando Mamadou è arrivato, lo abbiamo presentato ai vicini dalla finestra e le reazioni sono state tutte positive - conclude Margherita -. Certo, so già che saremo anche criticati, ma quelle critiche che arriveranno, ci renderanno ancora più certi della nostra decisione. Penso che il bene non abbia un colore e nemmeno una nazionalità. Spesso ci si rivolge a una determinata situazione spinti dalla propria storia e cultura di appartenenza. A chi dirà: “Ma con tutti gli italiani che hanno bisogno, proprio uno straniero?” risponderò: “E chi lo dice che questa è l’unica forma di solidarietà che noi mettiamo in atto?”. Come diceva mia nonna, “dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro”».
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