Ravenna, quattro storie di come il Covid ha cambiato carriere e attività

Romagna | 16 Ottobre 2020 Cronaca
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Silvia Manzani

C’è chi ha chiuso un’attività aperta da poco, chi è stato trasferito a qualche centinaia di chilometri da casa, chi non ha clienti da molto tempo e chi è rientrato dall’estero, per poi trovare un’altra occupazione in zona. Sono diverse le sfumature che la pandemia da Covid ha portato sulla vita professionale delle persone. Avventure imprenditoriali, aziende ormai consolidate e carriere appena cominciate o già in essere in diversi casi sono state messa alla prova dal lockdown della scorsa primavera ma anche dalle tante ripercussioni che, sul tessuto economico e sulla vita delle gente, la stretta generale ha avuto in un secondo momento, quando è parso di ritornare, in concomitanza con l’estate, alla normalità. Un periodo, quello tra marzo e aprile, di cui molti nodi vengono al pettine ora. Dal Ravennate, allora, ecco alcune storie che appartengono a settori molto diversi tra loro ma che la dicono lunga sul cambiamento in corso. Storie trasversali non solo agli ambiti lavorativi di appartenenza ma anche alle generazioni, visto che riguardano persone di età molto diverse, con un’esperienza più o meno lunga alle spalle. Storie, oltretutto, che toccano non solo il settore privato ma anche quello pubblico.      

«SENZA ENTRATE, NO SI VEDE LA FINE»
Periodo durissimo per il ravennate Stefano Russo, titolare di «Autonoleggio Top service», azienda di noleggio con conducente, oltre che socio del Classic Club di Rimini, dove da 23 anni coordina la parte sicurezza. Due settori che al momento sono praticamente fermi: «Sul primo versante, sto lavorando un decimo di quello che lavoravo prima. Da fine febbraio non c’è più stato il movimento legato alle aziende che lavorano nel settore oil&gas, che mi davano diversi clienti da trasportare lungo il tragitto Ravenna-aeroporto di Bologna. Rimane qualche chiamata occasionale: la signora che deve andare dal medico, l’anziana che deve essere portata in centro». Sul secondo fronte, il nulla: «Abbiamo chiuso il 22 febbraio e riaperto il 20 giugno, per poi richiudere il 9 agosto. È tutto bloccato e credo che, nel migliore dei casi, prima di aprile dell’anno prossimo non vedremo la luce. Il quadro è negativo, io sto attingendo ai pochi risparmi, che comunque nel giro di poco, per forza di cose, finiranno. Sto su di morale comunque, abbattersi non porta a nulla, anzi peggiora la situazione. Sto dando una mano a mia moglie Elena nel suo bar ma psicologicamente e professionalmente questo periodo è davvero una brutta botta».

«MANDATA A 300 CHILOMETRI DA CASA»
Trasferita, da un giorno all’altra, a 300 chilometri da casa. È successo a Jennifer Landini, insegnante della scuola primaria di Ponte Nuovo, dove per due anni è stata di ruolo con riserva: «La riserva era legata al fatto che non avevo ancora vinto il concorso, cosa che invece è successa. Peccato che quest’anno, per assegnare i posti, sia stato usato un algoritmo che mi ha mandata, in automatico, a Castell’Arquato, in provincia di Piacenza. Il paradosso è che la mia classe di Ponte Nuovo, una quinta, è ancora scoperta. I genitori dei miei alunni hanno fatto di tutto per riavermi ma gli enti preposti hanno fatto orecchie da mercante». Vincolata a restare cinque anni nel Piacentino, Jennifer ha preferito mettersi in aspettativa: «In Italia, in migliaia sono nella mia stessa condizione. È successo anche a persone che hanno figli con disabilità. Se non avessi vinto il concorso, adesso sarei ancora a insegnare nella mia bella classe di Ponte Nuovo. Se non ci fosse stato il Covid e fossimo nel 2019, con la vittoria del concorso al massimo avrei rischiato di essere spostata di qualche chilometro. Peccato che, davvero, nessuno ci stia ascoltando. È un sistema assurdo, i colleghi stanno prendendo congedi e malattia. La continuità tanto declamata dov’è?».

«AVEVO APPENA APERTO UNA PIZZERIA»
«Avevo previsto tutto, dalla bancarotta alla rapina. Ma il Covid, davvero, non lo avevo messo in conto. Chi lo avrebbe mai potuto immaginare». Vasco Rakovych ha aperto a Ravenna, nel dicembre dello scorso anno, una pizzeria e griglieria d’asporto, «Brasul Royal», che non aveva fatto ancora in tempo a prendere il via quando, di mezzo, ci si è messa la pandemia: «Per un’attività nuova e non pubblicizzata come la mia, è stata la fine. Abbiamo provato, durante il lockdown, ad andare avanti con la consegna a domicilio ma davvero, non poter fare entrare la gente ne locale ci ha messi letteralmente in ginocchio». Dopodiché, Vasco ha dovuto gestire tutta la burocrazia legata alla cessazione dell’attività: «Ho chiuso ufficialmente i primi di giugno, dopo aver spiegato ai tanti fornitori perché mi vedevo costretto a recedere dai contratti. Non è stato semplice nemmeno per il morale. Per fortuna non sono uno che si piange addosso. Continuo, di mattina, a lavorare come manutentore meccanico. E dopo due week end a casa, mi sono rimesso a fare gli extra in una pizzeria d’asporto, lavoro che avevo già fatto anche in passato. Fermo, non ci so proprio stare». 

«TORNATA IN FRETTA DA PARIGI»
Ingegnere edile civile, Francesca Evangelista, ravennate, 30 anni, a causa del Covid ha visto il proprio percorso lavorativo cambiare in modo rapidissimo e inatteso: «Nel giugno dello scorso anno sono andata a vivere e a lavorare a Milano, dove sarei dovuta rimanere un anno, prima del trasferimento a Parigi. Ma l’8 marzo, una domenica, all’una mi hanno comunicato che sarei dovuta partire quel pomeriggio stesso: in poche ore ho fatto le valigie e lasciato la casa». Nella capitale francese, ad attendere Francesca, un impiego a tempo indeterminato: «Quando sono arrivata, la Francia non aveva ancora chiuso le frontiere. Sono andata per una settimana in ufficio, tra l’altro con il divieto dell’azienda di usare la metro. Seguivo i cantieri delle boutique di alta moda. Dormivo in hotel, non avevo un medico, la situazione non era per nulla tranquillizzante. Così ho deciso di rientrare a Ravenna, dove avrei proseguito il mio lavoro in smart working». Per rientrare, però, Francesca affronta un viaggio per nulla facile: «A Brigue, in Svizzera, il treno ci ha praticamente lasciato a piedi. Sono riuscita a prenderne un altro per Domodossola e, dopo diverse ora, ad arrivare a casa». Dopo qualche settimana di smart working, però, per Francesca è arrivata la cassa integrazione: «Ho iniziato, allora, a cercare un altro lavoro in Italia, prevalentemente a Milano: peccato che su ottanta curricula inviati, mi abbiano risposto solo in tre. Allora ho allargato la ricerca alla mia zona e alla fine sono stata assunta da una ditta del Ravennate. Non lo avrei mai detto, anche se alla fine è stata una scelta abbastanza consapevole. Non è facile inserirsi senza conoscenze, dall’altro lato non credo che avrei avuto così tanta voglia di iniziare una nuova vita a Parigi, dove avrei dovuto ricominciare tutto daccapo». 
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Capisco il disagio della docente che è stata spedita in una scuola a 300 km di distanza, ma anche il non presentarsi in classe mandando certificati di malattia di settimana in settima non è onesto. Io sono la madre di un'alunna della classe quinta primaria di Castell'Arquato e sto subendo il fatto di avere supenze diverse di settimana in settimana. Alla fine sono i bimbi che pagano le conseguenze di tutto ciò.
Commenta news 07/11/2021 - Elisa
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