Ravenna, Pier Luigi Pizzi porta in scena l’opera di Monteverdi al teatro Alighieri

Romagna | 05 Novembre 2021 Cultura
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Elena Nencini
Teatro, lirica, prosa, ma anche cinema e televisione sono stati il pane quotidiano di Pier Luigi Pizzi per quasi 70 anni di lavoro, spaziando dalla scenografia, ai costumi, alla regia, dopo l’esodio nel 1949 come scenografo. A Ravenna porterà finalmente sabato 6 alle 20.30 (domenica 7 alle 15.30) al teatro Alighieri L’Orfeo di Claudio Monteverdi, che ha avuto una lunga gestazione.
Pizzi firma regia, scene e costumi del mito universale del cantore sulle tracce della propria amata, mentre Accademia Bizantina, guidata da Ottavio Dantone, curerà la parte musicale, in una nuova coproduzione con il Comunale di Ferrara.
Tra i due finali originali - quello tragico che si conclude con l’uccisione di Orfeo da parte della Baccanti e corrisponde probabilmente alla prima dell’opera nella sala degli Specchi di Palazzo Ducale a Mantova, e quello lieto dove Orfeo è salvato da Apollo e forse eseguito una settimana più tardi nel teatro del Palazzo di Corte - regista e direttore hanno concordato una terza via, con un finale aperto.
Dantone ha infatti sottolineato: «Il Novecento è abituato alla prassi all’opera aperta. E se molti pensano che essere filologici consista nel replicare ciò che si faceva un tempo, la mia visione delle cose è invece che ciò che conta sia recuperare e mantenere un linguaggio capace di trasmettere gli stessi identici affetti che si vivevano al tempo, quelli che noi oggi chiamiamo sentimenti».
Pizzi aveva cominciato a pensare alla direzione dell’opera nel 2020, come racconta nell’intervista.
Che tipo di scelte registiche ha fatto per questo Orfeo?
«Il progetto è nato un anno fa per il Festival di Spoleto. Saremmo partiti dalla revisione che di Orfeo aveva fatto Luciano Berio per il Maggio Musicale Fiorentino, di cui avevo curato la regia e l’ambientazione nel cortile di Palazzo Pitti. Berio aveva previsto un complesso organico strumentale, adatto ad una rappresentazione all’aperto. A Spoleto si sarebbe ambientata nella piazza del Duomo. Purtroppo la pandemia ci costrinse a cambiare idea, proponendo lo stesso titolo monteverdiano, ma nella versione originale, e l’esecuzione fu affidata a Ottavio Dantone con Accademia Bizantina. Lo spettacolo raccolse vasti consensi e Angelo Nicastro ci invitò a riprendere la produzione all’Alighieri. Ma il percorso esecutivo continuò ad essere accidentato. Mesi fa pensavamo di usare la platea svuotata e sistemarvi i musicisti distanziati fra loro. L’azione scenica si sarebbe svolta sul palco. Al momento di riprendere le prove per il debutto, un’altra svolta: si riammette il pubblico ormai vaccinato nelle poltrone di platea. Così si è dovuto ripartire da zero».
Cosa l’ha influenzata?
«Il fatto che a questo punto risalivo alla rappresentazione spoletina, rimettendo l’orchestra sul palcoscenico. La musica al posto d’onore a guidare il percorso drammaturgico. Sullo sfondo della scena un alto muro separa un interno ombroso, che evoca un teatro, da un esterno assolato che ci rimanda all’idea di natura. Un grande portone consente il passaggio fra questi due mondi, la vita e la morte; un passaggio che in quest’opera è sempre in agguato. L’Ade pagano è collocato nel profondo del golfo mistico. In questi luoghi si narra la favola di Orfeo, del suo viaggio iniziatico alla scoperta dell’amore, effimero come la giovinezza, e della morte».
Ha usato spesso scenografie barocche, oggi che tipo di ambientazioni preferisce?
«In una carriera come la mia, lunga settant’anni, ho avuto modo di affrontare ogni genere d’opera. Per un lungo periodo ho sentito il teatro barocco particolarmente affine, perché legato all’immagine. Ma ho lungamente militato nel melodramma. Ho prediletto Rossini condividendone l’ironia. Peraltro mi sono appassionato al teatro del Novecento e perfino a quello verista, che per anni ho rifiutato perché per me non esiste nessun tipo di realismo nell’opera lirica».
In un’opera musica, azione scenica e canto si trovano sullo stesso piano o una prevale sulle altre?
«Assommandosi, si completano».
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