Ravenna, parla il pompiere sindacalista tra i più "anziani" d'Italia: "Dal 2015 abbiamo una partenza in meno, la politica non ci ascolta"

Romagna | 03 Ottobre 2020 Cronaca
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Federica Ferruzzi - I quarant’anni di carriera di Marino Pederzoli, vigile del Fuoco sindacalista tra i più anziani d’Italia, dal 30 settembre in pensione, coincidono con eventi che hanno segnato, in maniera diversa, la comunità ravennate. Tra tutti spicca la tragedia della Mecnavi del 1987, quando Perderzoli, al quarto anno di servizio, dovette estrarre , insieme ai colleghi, il corpo senza vita di un ragazzino che stava pulendo la nave gasiera Elisabetta Montanari. Oggi, a distanza di oltre 30 anni, il vigile del fuoco si trova ancora a fare i conti con l’espressione di quel viso che venne colto dalla morte all’improvviso. Figlio «d’arte» -«mio padre e mio fratello sono stati pompieri» - Pederzoli ha vestito anche la casacca del sindacalista sedendo ai tavoli romani dove l’esserci, o meno, poteva fare la differenza per la propria realtà. «A livello locale non abbiamo mai avuto politici che siano stati interessati alla nostra condizione o, se lo hanno fatto, non ne hanno fatto una grande pubblicità. Pur essendo la provincia con il maggior numero di aziende a rischio, la nostra realtà non gode di attenzioni particolari: a livello centrale si lavora in base alle statistiche e Ravenna compie seimila interventi l’anno. Sembra brutto dirlo, ma affinchè qualcosa cambi deve succedere un altro “Elisabetta Montanari”. La politica - prosegue - si è dimenticata di tutti quei ragazzi che sono morti e ogni anno la commemorazione diventa un ricordo sterile di nomi e visi che continuano a guardarci dalle foto di un comodino. Basti dire che dopo il 2015 il distaccamento del porto, nato proprio in seguito a quel disastro, è stato chiuso e che una città come Ravenna non può più contare su una seconda partenza». 
Pederzoli, partiamo dall’inizio, diceva che è «figlio d’arte»...
«Mio padre e mio fratello sono stati pompieri come me, la mia non è stata una scelta difficile e ponderata, come invece può essere stata per altri. Al quinto anno delle superiori ho chiesto di poter fare l’anticipo di militare  per essere sicuro di riuscire a partecipare al concorso e mettermi nelle condizioni di entrare. Di lì a breve uscì effettivamente un bando a cui partecipai diventando vigile del fuoco il primo marzo 1983. Successivamente, mentre lavoravo, ho conseguito la maturità. Il primo incarico è stato a Lugo, all’epoca si concorreva per sedi provinciali, all’età di 22 anni. Come prima cosa feci domanda per conseguire la patente nautica per poter guidare le motobarche, allora c’era un distaccamento minimo gestito dalla sede centrale». 
Distaccamento che nacque ufficialmente dopo la tragedia dell’Elisabetta Montanari...
«La svolta del distaccamento portuale nasce col dramma del 13 marzo ‘87: di lì ad un anno e mezzo, grazie ai mutati orientamenti politici e della nostra amministrazione centrale,  nacque un vero distaccamento con tanto di personale terrestre. Fino al 2015 quella sede è funzionata sia come lavoro operativo a terra, con camion, sia in ambiente marino grazie alla presenza di motobarche. La zona di competenza erano la Darsena, tutti i lidi fino al confine con Ferrara e si contavano oltre 1.300 interventi all’anno solo di terra».
Poi cos’è successo?
«Il comandante che arrivò nel 2015 eliminò la partenza da terra mantenendo il personale nautico. Negli anni assistiamo alla commemorazione della tragedia, che trovo anche corretta, ma lo spirito con cui la si fa non è quello giusto. Sembra una cosa da fare e basta, ma nessuno si ricorda di quello è successo». 
Lei c’era, cosa ricorda?
«Arrivammo con un Fiat Om160, una macchina di quei tempi, con la squadra al completo, di solito tutti brevettati nautici o motoristi. Ricordo che si vedeva la colonna di fumo in lontananza. Io portavo la barca: giungemmo in banchina, all’interno dell’invaso. Dentro la gasiera c’erano più ditte al lavoro e questa fu una di quelle anomalie che hanno prodotto il danno. Vede, si facevano lavori contemporaneamente che, normalmente, non si sarebbero potuti fare: alcuni usavano la fiamma libera in ambiente chiuso, mentre altri pulivano le casse dove c’era il propellente. Un ragazzo, sotto, raschiava, l’altro, dall’alto, puliva. Uno l’ho tirato fuori io: l’Elisabetta Montanari era una nave gasiera, aveva rivestimenti in vetroresina, materiali che, quando prendono fuoco, emanano esalazioni cianotiche. E’ una magra consolazione, ma questo significa che chi era presente non si accorse di quanto stava succedendo. Oltre a lui estraemmo altre due persone, ma sul momento non ci rendemmo conto della portata dell’evento. Mentre sei in soccorso sei proiettato a fare il tuo lavoro, il resto viene dopo, quando finisce tutto. I segni rimangono, si fa fatica a dimenticare, le ferite si chiudono difficilmente». 
E a livello politico queste cose, a volte, corrono il rischio di diventare una bandiera...
«La politica, in generale, cerca comunque di “appropriarsi” di questi accadimenti. L’uomo, di indole, fa presto a dimenticare, e se si mette insieme l’uomo che dimentica facilmente con il politico, ci si ritrova a fare commemorazioni per dare sollievo ai familiari delle vittime, ma non si pensa davvero alla comunità e alla sicurezza. E i fatti lo dimostrano: la chiusura del distaccamento portuale nel 2015 ha sancito l’abolizione della seconda partenza. Il nostro è il comune più rischioso d’Italia perchè qui ci sono molte aziende a rischio di incidente rilevante, ma c’è una sola partenza. Ci sono comandi che, pur non avendo  particolari condizioni di rischio, hanno molto piu organico di Ravenna, dove invece c’è un porto industriale. I comandanti che si sono avvicendati nel tempo hanno avuto  fortuna, anche se nel ‘90 ci furono altri 13 morti». 
Si riferisce all’elicottero precipitato in mare?
«Sì, anche se tengo a precisare che non ero presente. A fine ‘87 mi sono trasferito a Pordenone per 4 anni e mezzo. Feci la scelta di trasferirmi, poi le cose non sono andate come volevo e rientrai nell’aprile 1991. Il distaccamento portuale aveva inaugurato due anni prima e Ravenna lavorava molto meglio con due squadre sul territorio». 
Negli anni è diventato sindacalista, quali sono state le battaglie principali?
«Oggi sono nella Cisal, dove continuo ad essere rappresentante regionale, ma come Rdb, e poi come Usb, le battaglie sono state diverse. Sono stato cinque anni a Roma, uno a Venezia, e posso dire che a livello regionale Ravenna non è messa bene. La politica conta molto: a Roma facevo parte del sindacato nazionale e magari, proprio perchè ero lì in quel momento, qualche cosa qui arrivava. La battaglia principe è, comunque, l’aumento di organico».  
Come sono cambiati gli interventi?
«Gl interventi sono cambiati nel modo di lavorare: una volta si rischiava di più, c’erano meno attrezzature, meno cultura della sicurezza e meno tecnologia. Una volta si lavorava in altezza senza grosse sicurezze, si pensava che, facendo il vigile del fuoco, fosse tutto deorgabile. Ricordo qualche intervento in particolare, come quello su via Sant’Alberto nel 2014, quando le fiamme lambirono un palazzo di 4 piani, o quello della Lotras dell’anno scorso. Quando ci chiamarono, il capannone era avvolto all’85% dalle fiamme».
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