Ravenna, Marco Belpoliti protagonista con le Albe della riapertura del Rasi con una prima nazionale

Romagna | 18 Febbraio 2022 Cultura
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Elena Nencini
Se uno dovesse attenersi alle note biografiche direbbe che Marco Belpoliti, reggiano di nascita, è uno scrittore, un saggista, un professore universitario, ma anche collaboratore del quotidiano La Repubblica e dell’Espresso. Ma Belpoliti è molto di più: nelle sue opere ha spaziato da Primo Levi al terrorismo, fino ad Alberto Giacometti, passando per Italo Calvino. Nel 2021 ha scritto Pianura (Einaudi), che ha ricevuto il Premio Comisso e il Premio Dessi. Ed ora il libro è stato trasformato in spettacolo grazie all’amicizia e alla lunga collaborazione di Belpoliti con il Teatro delle Albe e con Marco Martinelli, che ne è il regista.
In prima nazionale, Pianura andrà in scena al teatro Rasi di Ravenna (che riapre dopo un’importante ristrutturazione) venerdì 18 alle 21 (replica sabato 19 alle 21). Un racconto che si snoda nella pianura Padana e nella sua essenza, tra nebbie, scrittori, artisti, pittori, intellettuali, ma anche aceto balsamico e anguille. Belpoliti racconta cosa rappresenta per lui la pianura Padana e il mondo contemporaneo.
Belpoliti, cos’è per lei la pianura Padana?
«È uno spazio illimitato, il luogo dove sono nato. È qualcosa di inafferrabile, un luogo pieno di sole e di nebbia, un labirinto piatto. Un luogo senza confine».
La sua prima collaborazione con Marco Martinelli e il Teatro delle Albe risale al 1986, con «Confine: vite immaginarie del clown». Che significato ha riaprire il Rasi dopo questa pandemia?
«Conosco Marco dagli anni ‘80, sono quindi 40 anni e ho visto il suo sviluppo come artista, conosco se non tutti i suoi spettacoli sicuramente molti. Per me è un amico, un compagno di strada, un complice e un artista che ammiro».
La pianura Padana assume aspetti diversi tra Emilia e Romagna. Cosa ne pensa?
«A Ravenna c’è il mare, la pianura va a finire contro il mare, contro l’Adriatico. A sua volta, il mare stesso è una pianura. Nel mare non ci si orienta se non con le stelle. Il mare è il vero labirinto. Nella pianura non c’è un vero labirinto, è un labirinto interiore, il luogo dell’uniformità, il luogo della ripetizione, è il luogo in cui il cielo tocca la terra. Il mare è una sostanza liquida, fluttuante, inafferrabile. La nostra pianura è molto piatta, sta tra due catene montuose - è una rarità -, da un parte c’è l’Appennino, che non ha altezze importanti, ma rappresenta una dorsale montuosa che corre fino al Piemonte, alla Liguria, al sud dell’Italia, incide molto nel territorio».
Allora dalla pianura passiamo alla montagna. Il suo primo incontro?
«Io, per generazione, sono stato molto presto in montagna: si usava fare l’elioterapia per vincere il rachitismo, le possibili malattie della respirazione. Un fenomeno già cominciato col fascismo, poi c’è La montagna incantata di Thomas Mann. La montagna è sorprendente per uno che è nato in pianura, è una terra che va verso il cielo, andando verso in su, mentre la pianura va in là. In pianura la terrazza è un punto di osservazione interessante, uno sguardo estensivo, non intensivo».
Dei personaggi di cui racconta ce n’è uno a cui è più affezionato?
«Sicuramente Celati, anche perché è morto da poco, ed è ancora molto doloroso. Ho curato il volume della collana Meridiani delle sue opere e gli ho dedicato una pubblicazione, due volumi per Quodlibet. Io l’ho frequentato personalmente: mi piaceva il fatto che fosse un inclassificabile, non rientrava in nessuna categoria già allestita. Ma ce ne sono tanti altri a cui sono affezionato, come Giuliano Della Casa, un artista, un illustratore geniale, poco noto. È un punto di riferimento per la cultura culinaria di Modena».
Ha scritto diversi libri sul terrorismo. Cosa la colpisce della nostra contemporaneità di oggi, molto diversa da quegli anni?
«Non lo so, è difficile rispondere a questa domanda. Non vedo il mondo con il medesimo sguardo: ci sono delle continuità storiche che durano parecchio. Ogni epoca ha pregi e difetti. Oggi siamo in una generazione post-politica cominciata dalla fine degli anni ‘70: è cambiato il paradigma, dagli anni ‘90 in poi ci sono state rappresentazioni politiche molto mutate.  Non c’è più l’effervescenza di quegli anni, ma non ci sono nemmeno gli anni di piombo né il terrorismo. È una bilancia».
Vede una luce in fondo a questo momento storico e alla pandemia?
«Mi sembra che il peggio sia passato, ma è una cosa molto complicata che resterà con noi a lungo. Quando ci fu la spagnola nel 1919 - certo con altri tempi, altre tecnologie, altri farmaci, altri scambi in giro per il mondo - durò più di 20 anni, con un acme spaventoso: si dice di 50 milioni di morti. Siamo impazienti e dobbiamo prendere le cose con più calma. Se non c’è la luce accendiamo le candele. Si fa quel che si può. C’è molta impazienza di ricominciare dimenticando la pandemia, bisognerebbe invece riflettere su cos’è accaduto, sull’ansia che ha creato. L’impazienza è figlia della frenesia del fare».

 
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