Ravenna, lo psichiatra: «In questi mesi ho ascoltato tanti colleghi piangere»
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«Che cosa potevamo fare noi, che a differenza di altri specialisti, non eravamo stati mandati in prima linea nei reparti Covid?». Se lo è chiesto a inizio pandemia, insieme ai colleghi, Lorenzo Gottarelli, medico del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Ravenna. Poco dopo essersi posto la domanda, insieme alla psichiatra Giuseppina Correddu ha implementato una linea aperta ai professionisti del «Santa Maria delle Croci» che avessero bisogno, in forma individuale o con le rispettive équipe, di un supporto: «Abbiamo utilizzato il “defusing & debriefing”, una tecnica alla quale in genere si ricorre di fronte alle grandi catastrofi, per il superamento del trauma. Abbiamo trattato la pandemia alla stregua di un trauma per il rimando all’idea della morte e per la repentinità con cui si è presentata nelle vite di tutti. Del resto, andare al lavoro e sentire, quotidianamente, il bollettino dei medici e degli infermieri positivi, così come vedere le forze dell’ordine con i mitragliatori davanti all’ospedale, in questo caso quello di Lugo, o doversi allontanare dalle proprie famiglie per la paura del contagio non è semplice». Ad accedere al servizio, una trentina di persone, anche dall’«Infermi» di Faenza: «La direzione sanitaria non ci ha chiesto report sugli accessi, i dati sono stati raccolti in forma anonima ma ci hanno raccontato molto dei bisogni che emergevano. C’era la disperazione del provare paura per i pazienti: un medico, di solito, mette in conto di essere denunciato o di ricevere, se va male, uno schiaffone dal familiare di un paziente. Ma temere di essere contagiati dagli assistiti è stato un sentimento inedito, vissuto con senso di colpa. Lo stesso senso di colpa che accompagnava molti professionisti per il fatto di non poter curare tutte le persone malate: un aspetto che nel Ravennate, in realtà, non si è verificato ma anche aleggiava nell’aria, soprattutto nei racconti dei colleghi di Rimini o Piacenza. A tutto questo, si aggiungeva il timore di contagiare le proprie famiglie o i vicini di casa, così come la sensazione che nessuno, da fuori, capisse lo stress e la fatica che stavamo attraversando». Durante i colloqui e i trattamenti per i colleghi, una delle sfide più grandi è stato far capire che c’era bisogno di prendersi del tempo per sé: «Molti lavoravano 12 ore al giorno, sette giorni su sette. Li abbiamo visti piangere tutti, quando sono venuti. E ci siamo chiesti come stavano gli altri oltre 600 che non avevano chiesto aiuto». Anche Gottarelli, molto di quel carico emotivo, l’ha sperimentato sulla propria pelle: «A inizio marzo sono stato messo in quarantena perché avevo visitato un paziente poi risultato positivo e deceduto. Per cinquanta giorni ho dormito nello studio di casa. Una mattina, al bar, quando al momento di pagare mi è stato offerto il caffè, sono scoppiato a piangere. Ho capito che c’era gratitudine, cosa che per esempio non vedo verso gli insegnanti, che oggi sono una categoria a rischio ma non hanno nessuno che rivolgo loro applausi dai balconi. Io, a dire il vero, i miei pianti me li sono fatti quasi ogni giorno, uscendo dal lavoro. Ed erano vent’anni che non mi succedeva». Al momento il servizio per i professionisti sanitari, per quanto in realtà ancora aperto, non è frequentato: «Ci interrogheremo, insieme alla direzione sanitaria, sul fatto di ricordarne l’esistenza. In base a quel che succederà nei prossimi mesi, potrà tornare a essere importante». Attraversare un momento come quello di primavera, per Gottarelli, può avere avuto un effetto anche sull’empatia e la sensibilità di medici e infermieri: «C’è chi è stato dalla parte dei curanti ma anche dei curati, perché si è ammalato. C’è chi, rivolgendosi a noi, si è interrogato a lungo sul proprio benessere. Qualcosa può essere cambiato». E mentre lo racconta, lo psichiatra si commuove ancora. (s.manz.)