Ravenna, la testimonianza di Shabnom: "Anche quando sarò italiana, mi considereranno una straniera"

Romagna | 28 Febbraio 2021 Mappamondo
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Barbara Gnisci
«Credo sia ingiusto che a noi che abbiamo studiato, che siamo cresciuti qua, non sia riconosciuta la cittadinanza e che siamo trattati al pari di una persona che è appena arrivata». Shabnom Pathan ha 13 anni, nel 2008, quando dal Bangladesh parte insieme a sua madre e a suo fratello per raggiungere il padre che da tre anni vive a Ravenna: «Mio papà ogni anno ci veniva a trovare e mia madre un giorno gli disse che non andava bene questo avanti e indietro, che dovevamo vivere insieme, perché altrimenti non saremmo stati una famiglia. Ed è così che siamo venuti a Ravenna. Ma, a differenza di tante altre famiglie, noi ci siamo ricongiunti veramente in fretta. In molti ci mettono più tempo, lo so perché siamo una comunità molto unita e ogni volta che arriva qualcuno dal Bangladesh, lo veniamo a sapere». Una scelta, quella della famiglia Pathan, dettata da problemi economici: «Noi vivevamo a Dacca, nella capitale, in un quartiere moderno e stavamo bene. Mio fratello e io frequentavamo una scuola prestigiosa. Mio papà era un businessman, e a un certo punto ha avuto una crisi sul lavoro e così ha pensato di raggiungere sua sorella che stava qui a Ravenna già dagli anni ‘90. Non ci ha messo molto a trovare un impiego e una casa». Shabnom lascia tante cose nel suo Paese: «In Bangladesh ci sono alcuni dei miei familiari, c’è la mia scuola, i miei amici e tante abitudini che qui non ho ritrovato. Appena arrivata in Italia ho capito che era finita una vita e ne stava iniziando una nuova. Ho dovuto imparare tutto daccapo, come muovermi, fare amicizia, niente era più spontaneo e naturale». Oggi Shabnom ha 25 anni, lavora come mediatrice interculturale e studia giurisprudenza: «Noi siamo stati fortunati, perché venivamo da un certo ambiente. Appena arrivati, io mi esprimevo in inglese, e all’epoca lo parlavo meglio di tutti gli italiani che ho incontrato. Ci ho impiegato due o tre anni a imparare l’italiano. Qui ho trovato un sistema scolastico meno rigido e rigoroso. Qui a ricreazione si parla e si scherza, in Bangladesh vai a scuola solo per imparare. Ognuno di noi aveva un numero in base al rendimento scolastico. Io ero la 12esima su 300 studenti. Quando sono arrivata qui ho provato un grande sollievo». Più di 10 anni sono passati dal viaggio migratorio di Shabnom: «Il Covid ha rallentato la nostra domanda per ottenere la cittadinanza italiana. Siamo io, mio fratello e mio padre a far richiesta, mia mamma dice che le basta essere la moglie di una persona con la cittadinanza per poter viaggiare. Per me averla significherebbe poter votare e partecipare ai concorsi pubblici una volta laureata, ma per il resto non mi cambia tantissimo, credo che sarò sempre considerata una straniera a causa del colore della mia pelle e del fatto che indosso i vestiti tradizionali.  Io mi sento la combinazione tra due culture, non sarà la cittadinanza a cambiare lo stato delle cose». Un iter comunque lungo e complicato: «Dal momento che hai tutti i requisiti in regola, come il Cud, la residenza e innumerevoli altri criteri, sembrerebbe facile ottenerla, ma non è così. Ti vengono richiesti dei documenti, un certificato di nascita e uno penale che devi ottenere dall’Ambasciata italiana del tuo Paese. Questi documenti vanno tradotti prima di essere spediti, ma i tempi a volte si allungano con il rischio che scadano. Hanno infatti una valenza di sei mesi. Se dimentichi qualcosa devi ricominciare daccapo. Per esempio a noi è scaduto il passaporto e con la pandemia si muove tutto a rilento. Insomma, devi sbrigare una serie di faccende burocratiche che non capisco come possa svolgere chi non ha le capacità e i mezzi che abbiamo noi che abbiamo studiato qui».
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