Ravenna, l'anestesista Monica Valbonetti: "Tanta voglia di normalità"
«Mi manca il caffè con i colleghi al cambio turno, la serenità di fare due chiacchiere, insomma la normalità. Per il resto, mi sono abituata a molte cose che all’inizio sembravano incredibili, come le operazioni di vestizione e svestizione». Monica Valbonetti, 42 anni, è un medico dell’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Ravenna. Quando si guarda indietro e rivive l’anno che è stato, ad attraversarla sono almeno due sensazioni, tra l’altro ancora oggi attuali: «Prima di tutto la paura di contagiarmi e diffondere il virus a casa. E poi la stanchezza psicologica di dover comunicare con i familiari dei pazienti a distanza: non nego di essermi fatta diversi pianti, dopo aver chiuso le telefonate. I parenti di chi è ricoverato, tra l’altro, vanno continuamente rassicurati: perché leggono tutto e il contrario di tutto e non avendo la situazione del reparto sott’occhio, sono in preda alle domande. E bisogna dar loro una risposta».
Nella parte più tecnica del lavoro, Valbonetti non ha sperimentato grandi rivoluzioni: «Spesso capitava anche prima di dover fare delle manovre sterili. Quel che è nuovo, è che oggi ci si approccia ai pazienti come se tutti fossero positivi al Covid, perché l’attenzione e la cautela non devono mai venire meno. E poi c’è il bisogno, da parte del personale, di staccare un po’ la spina. Ma è ancora un momento nel quale dobbiamo tener duro, accontentandoci di quella giornata o di quelle due giornate che possiamo prenderci ogni tanto. Siamo tutti sulla stessa barca, cerchiamo un po’ di riposo aggiustando i turni».
Lo stress che si vive sul lavoro, questa è l’aggravante, rischia di essere portato anche in famiglia, come è normale che sia: «Con mia figlia ho sempre cercato di parlare di Covid il meno possibile e la televisione, a casa, resta spenta quando va in onda il telegiornale. Ma è chiaro che a pagare questa situazione sono anche le persone che non la vivono direttamente, come noi operatori della sanità. Ci è voluto, e ci vuole ancora, un continuo adattamento da parte di tutti, anche dei bambini». Oggi, a distanza di un anno, Valbonetti la fine ancora non la riesce a vedere: «Finché non si riuscirà ad avere una copertura vaccinale di massa, e finché le persone non smetteranno di mettere in atto comportamenti scorretti, non ne saremo fuori. Ancora adesso capita di ricoverare persone, di indagare con i familiari sulla causa di contagio, e di venire a sapere che sono state a questa o a quella cena. Insomma, siamo ancora in mezzo alla complessità, alle chiacchiere a sproposito, al parlare di tutti. La gente non sa più a chi credere». (s.manz.)