Ravenna, Ilaria Iacoviello torna nella sua città per parlare dei ragazzi della Gen Z e presentare il suo romanzo

Romagna | 08 Novembre 2022 Cultura
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Federico Savini
«La Generazione Z merita più fiducia di quanto di solito non gliene concediamo. Frequentano un mondo molto diverso da quello dei loro genitori e di chi scrive di loro sulla stampa. E ovviamente non sono perfetti, ma nessuna generazione lo è stata e loro scontano pregiudizi e stereotipi eccessivi, questo lo dico a chiare lettere». Sarà importante, tra qualche giorno, per Ilaria Iacoviello rimettere piede a Ravenna, città nella quale la giornalista di SkyTg24 è cresciuta e dove appunto tornerà mercoledì 9, per presentare alle 18 in Classense il suo romanzo Due settimane, forse un anno, che nella mattina di sabato 10 sarà oggetto di un approfondimento al liceo Dante Alighieri della città Bizantina, proprio in cui anche lei studiò. «Una scuola che mi è rimasta nel cuore, come del resto la città di Ravenna, che tra l’altro è sempre più bella e viva in questi anni - commenta Ilaria Iacoviello, raggiunta telefonicamente qualche giorno prima della presentazione ravennate del libro -. Ravenna è la città che insieme a Roma sento più mia e a dispetto delle molte differenze credo abbiano tanto in comune: i colori dolci e un’affettuosità rara, qui la comprensione tra le persone la senti proprio nell’aria. Nel mio libro, anche se Ravenna non è direttamente citata, ai giovani protagonisti faccio frequentare alcuni posti speciali di questa città, come la battigia vicina al Boca Barranca o l’orto botanico a due passi dal Duomo».
Si può dire che il tuo libro sia in tutto e per tutto “figlio” dell’esperienza di Ragazzi Interrotti, serie web che faceva raccontare la pandemia ai ragazzi chiusi in casa con al Dad?
«Sì, viene proprio da lì. Ragazzi Interrotti ha avuto un successo inatteso, si è rivelata un’idea vincente in termini editoriali che televisivi. Così Giunti mi ha proposto un seguito, ma io volevo che rimanesse un unicum. C’era qualcosa di irripetibile in quelle interviste, che fotografavano un momento di trauma e incertezze che non si poteva replicare. Piuttosto poteva aver senso farlo rivivere in modo diverso».
Trasformandolo in un romanzo. Perché era questo il media giusto?
«Perché ho pensato che tradurre quelle testimonianze nelle storie semplici eppure profonde di Matteo, Luca e Federico, e della ragazza di cui uno di loro si innamora quando le strade dei tre amici di infanzia cominciano fatalmente a separarsi, fosse il modo migliore di restituire ai ragazzi uno spaccato della loro esperienza. Che parte dal lockdown ma va oltre. Ho cercato di indagare gli umori della Gen Z e provare a dar loro la possibilità di guardarsi da fuori. Dal complesso di tutto il lavoro, è emerso quanto sia difficile oggi essere genitori ma anche quanto sia difficile essere ragazzi».
Ogni presentazione prevede poi che si porti il libro anche a scuola…
«Sì, sono partita da Palermo con questo progetto e qualche giorno fa ero a Bologna. I ragazzi che incontro hanno letto il libro e ne hano parlato in classe con i professori. Lo vedo come un momento di confronto reciproco, di arricchimento ulteriore per tutti».
Che i giovani siano poco ascoltati è un fatto abbastanza incontestabile, ma questa cosa la si dice anche di continuo, quindi rischia di passare nello stesso tempo per un luogo comune. Secondo te qual è, oggi, la più lampante prova dell’incomprensione tra generazioni?
«Gli stereotipi legati al cellulare. È lo strumento che questi ragazzi hanno avuto nelle mani fin da piccoli e non si deve commettere l’errore di credere che siccome ci passano tanto tempo attaccati, questo tempo sia tutto dedicato a idolatrare gli influencer. Molti di loro sono ironici al riguardo, conoscono gli influencer ma se ne fregano. In particolare chi è impegnato nello sport, e tutto sommato anche nella musica, è quasi sempre molto distaccato dal mondo dei social. Ma dipingere questa generazione come perennemente persa e alla deriva è soprattutto un modo facile e poco onesto per fare titoli di giornale».
Fino a che punto gli adolescenti che hanno sperimentato il lockdown colgono il peso di ciò che hanno passato? Suona paradossale, ma forse quello che «loro» hanno perso ce l’abbiamo più chiaro noi che alla loro età l’abbiamo vissuto senza lockdown…
«È così. E non è paradossale, è drammatico! La pandemia ha avuto conseguenze su vari livello, non ultima l’intimità negata, senza neanche parlare dei limiti formativi. Vedere che sono tirati in ballo dalla politica solo quando si avvicinano le elezioni è sconfortante e conferma la scarsa capacità e purtroppo anche la scarsa voglia di capirli. Non dimenticheranno il Covid tanto in fretta. So qualcosa di terremoti, ne ho seguiti tanti per lavoro, e come per gli abitanti dei luoghi terremotati il lockdown lascerà in loro la percezione di un prima e di un dopo. Ma ci si rialza, come ha dimostrato il ragazzo che abbandona la scuola, nell’intervista più drammatica di Ragazzi Interrotti, e che due settimane fa mi ha detto di avere ripreso gli studi, completando due anni scolastici in uno. È stato aiutato anche dai genitori e ci tengo a dire, proprio ai genitori, che non devono sentirsi falli e incapaci se non riescono a sciogliere i nodi emotivi dei loro figli. Accorgersi dei problemi e dei limiti è il primo e il più importante passo da fare per risolverli, magari con l’aiuto di persone esperte Ma tutto parte dalla consapevolezza».
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