Ravenna, il dirigente Tarantino se ne va: «Non si mischiano cultura e politica»

Romagna | 06 Maggio 2022 Cronaca
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Elena Nencini
Maurizio Tarantino se ne va: dopo 5 anni a Ravenna, alla guida dell’Ufficio politiche culturali, del Museo d’arte della città (Mar) e dell’Istituzione Classense torna a Perugia, in attesa di nuove avventure lavorative.
La nomina di Tarantino era stata decisa dal sindaco Michele De Pascale all’inizio dello scorso mandato (2017) e scadeva con la fine dello stesso. Tarantino aveva poi chiesto di rinunciare in ogni caso all’Ufficio politiche culturali e alla direzione del Mar, per puntare su ciò che era più attinente alla sua formazione professionale: il posto da direttore della Classense, ruolo per il quale l’amministrazione ha bandito un concorso, ma Tarantino non lo ha superato. L’ultimo mese di lavoro è stato anche al centro di un’accesa polemica sull’esposizione dell’opera di Sol LeWitt, artista considerato il capostipite del movimento concettuale. Nella nostra intervista fa un bilancio di questi 5 anni e del lavoro fatto.
Cinque anni a Ravenna. Che cosa resta?
«Rimangono tante cose: rimane l’offerta ‘paghi uno prendi tre’, rimane il fatto che per 5 anni mi sono trovato a dover dirigere due istituzioni prestigiose, l’Ufficio politiche e attività culturali negli anni difficili della pandemia, le celebrazioni dantesche. Rimane un grande lavoro che abbiamo fatto con i colleghi e l’amministrazione. Un lavoro che mi sarebbe piaciuto continuare in Classense, ma che proseguirà qualcun altro».
Cosa le piacerebbe aver portato a termine in biblioteca?
«L’Istituzione biblioteca Classense continuerà con un nuovo direttore; quello che spero continui ad essere perseguito è il fatto di rimarcare la presenza della Classense a Ravenna come uno dei più importanti soggetti culturali della città. Con i suoi 30mila mq, i tre spazi espositivi, le due sale conferenze e gli spazi monumentali non può essere considerata solo una biblioteca, la Classense ha la struttura per poter essere un soggetto culturale, cosa che in questi cinque anni abbiamo realizzato. L’abbiamo fatta interagire con il Mar, con le attività culturali, con tutti i soggetti convenzionati, con RavennAntica, con RavennaFestival. Questa è la vera vocazione della Classense che dovrà continuare. Se devo pensare a un progetto che non si è realizzato, è l’apertura della biblioteca sul lato di piazza Caduti: questo la renderebbe ancor più vicina alla città, alla zona dantesca e al centro della vita culturale di Ravenna». 
Cinque anni di lavoro finiti in modo piuttosto burrascoso, fra le polemiche partite dal caso Sol LeWitt. Gli eredi sostengono che fosse nella volontà dell’autore la distruzione postuma dell’opera; che facesse insomma parte dell’opera stessa. Che ne pensa?
«C’è un punto fermo in questa vicenda che non può essere eluso in nessun modo: al Mar c’è un manufatto artistico, un’opera d’arte che è stata inventariata negli anni ‘80 nel patrimonio del museo. Poi è stata inventariata nel 1996 nel patrimonio di Ravenna ed è quindi sia patrimonio del museo che del Comune; per questo si tratta di un ‘bene culturale’. In quanto tale ricade nella disciplina del Codice dei beni culturali: non può essere distrutto, ma deve essere ‘tutelato, conservato, valorizzato’. Questo è un punto fermo. Ora, questo bene culturale ha un autore: su questo ci può essere discussione perché c’è di mezzo una poetica, quella dell’arte concettuale, il diritto morale dell’autore che è eterno così come prescrive la legge del 1939. Si può discutere se quest’opera d’arte sia da attribuire a Sol LeWitt oppure no.  E questo sarà oggetto di una trattativa con gli eredi, che sono i detentori di questo diritto morale. Dopodiché, quest’opera d’arte è un documento di una storia che ha un rilievo enorme per Ravenna, ma anche per la storia dell’arte italiana e internazionale. Ci sono documenti che provano che quest’opera è nata all’interno di un progetto che ha coinvolto Sol LeWitt, quindi il museo ha il dovere di raccontare questa storia. Il Mar non è una galleria o un mercante d’arte, saremmo lieti se potessimo attribuire l’opera - con il parere favorevole degli eredi - a Sol LeWitt, ma noi siamo contenti anche se quest’opera non è attribuibile a Sol LeWitt, pazienza. Quello che è certo è che il museo ha un’opera che è nata in un certo modo in un determinato contesto storico e artistico con tutta la documentazione attinente. Il museo ha il dovere di raccontare questa storia e di valorizzare questo bene».  
Ci sono state delle leggerezze in questa storia?
«No, non credo. Se intendiamo la parola alla maniera di Italo Calvino, per il quale leggerezza non è sinonimo di superficialità ma significa andare oltre la strada battuta e guardare le cose dall’alto, allora sì. Secondo me c’è stato un atto coraggioso, un’opera d’arte che aveva e ha una situazione complessa dal punto di vista dell’attribuzione, che è parte di un percorso molto complesso: esporla, è chiaro - ne eravamo perfettamente consapevoli -, significava esporci a una polemica. Ma credo che sia giusto che le polemiche riguardino più la cultura e l’arte che la politica». 
Ha ricevuto delle manifestazioni di stima in questo periodo?
«Si, molte. Anche da parti da cui non me le sarei aspettate». 
Per il futuro?
«Tra cinque anni andrò in pensione, mi sarebbe piaciuto passarli a fare il direttore della biblioteca Classense, ma è andata diversamente. Vedremo, ci guarderemo intorno. Sono sul mercato».
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