Ravenna, il direttore di Rianimazione: "Ecco cosa ci ha insegnato la pandemia"

Romagna | 27 Febbraio 2021 Cronaca
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Silvia Manzani
Per Maurizio Fusari, direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione degli ospedali di Ravenna, Faenza e Lugo, non si smette mai da imparare. A maggior ragione da una pandemia: «L’insegnamento più grande che ho ricevuto da un anno a questa parte è che sebbene la medicina moderna ci porti a essere dei super specialisti, le persone hanno bisogno di essere curate nel loro insieme. E solo se noi medici ci uniamo e lavoriamo uniti, possiamo fare la differenza. In questo senso, il Covid ci ha indicato con chiarezza quale sia la strada».
Dottore, se getta lo sguardo al febbraio dello scorso anno, quanto tempo sente sia passato?
«Mentre ci eravamo in mezzo, il tempo sembrava non passare mai. Ma se oggi mi guardo indietro, mi pare trascorso tutto così in fretta».
Lei a che punto è, personalmente?
«Mi sento un privilegiato, mi è stata somministrata la prima dose del vaccino al V-day, dopo Natale, e mi sento più sereno, egoisticamente parlando. Sto anche vedendo come nel giro di poco, con le vaccinazioni, si sia quasi azzerato il numero dei contagiati tra gli operatori sanitari, segno che vaccinarsi serve. Spero davvero che le persone che ancora nutrono dubbi e sospetti possano ricredersi, altrimenti significherebbe ritardare ancora il momento dell’immunità di gregge e un ritorno alla vita “normale”, anche se non amo molto parlare di normalità».
Si sente più concentrato sul presente, da quando c’è la pandemia?
«Caratterialmente sono uno che ha sempre bisogno di stare in movimento, quindi tendo a proiettarmi in avanti, per costruire oggi quello che sarà domani. Ma mi sono reso conto che il futuro, così come il passato, è una dimensione che non esiste. Tanto vale, dunque, investirci il giusto. In questo senso dobbiamo essere consapevoli che la vita, dopo il Covid, non sarà più quella di prima».
Al momento qual è la situazione del suo reparto?
«Non siamo pieni, né tantomeno vuoti. Rincuora il fatto che i ricoverati sono per lo più pazienti non Covid e che abbiamo la possibilità di dare una risposta alla popolazione a prescindere dalla pandemia. Certo, rimane il grande limite emotivo legato alle visite dei parenti, che possono venire meno spesso, per minor tempo, uno alla volta. Avere la sala d’aspetto vuota di familiari è triste, d’altro canto le videochiamate non potranno mai sostituire una carezza, una parola sussurrata, il calore della voce. Per un paziente, vedere i propri cari su uno schermo, mentre l’operatore regge il tablet e nel letto affianco succede altrettanto, non può essere in alcun modo una compensazione. Vengono a mancare confidenzialità e privacy emotiva». 
Se dovesse indicare il momento più difficile di quest’anno, che cosa sceglierebbe?
«Il momento in cui, dopo l’estate, ci siamo resi conto che non era finita. Il personale forse non aveva bisogno di lunghi periodi per staccare ma di un allentamento della pressione. E lì ho visto tanta stanchezza intorno a me. Senza contare che i medici, da angeli quali erano stati considerati fino ad allora, hanno iniziato a essere oggetto di rivendicazione da parte della popolazione. Ci ha fatto male, perché l’obiettivo è lavorare sempre in piena partnership con le persone». (s.manz.)
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