Ravenna, il direttore delle Cure primarie: "Abituato alle emergenze ma all'inizio c'è stata paura"

Romagna | 26 Febbraio 2021 Cronaca
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Silvia Manzani
«Abbiamo attraversato, nel giro di dodici mesi, moltissime fasi: tutte ad alto impatto, con cambiamenti significativi, e soprattutto rapidissimi. Alla fine è passato tutto in fretta, anche se è cambiato il mondo». Mauro Marabini, direttore del Dipartimento di cure primarie (Ravenna, Faenza e Lugo), è uno dei medici che, sulla riorganizzazione dei servizi imposta dalla pandemia, è stato maggiormente in prima linea.
Dottore, quali fasi sente di aver vissuto, in questo anno?
«All’inizio quella dello spaesamento: le persone che morivano, il fatto di essere davanti a qualcosa che non potevamo conoscere, il sentimento della paura. Poi la solidarietà delle imprese per fornirci i dispositivi di soccorso: andavano nei magazzini delle fabbriche e ci dicevano “prendete tutto quello che vi serve”. La terza fase è stata quella dell’attivazione di servizi nuovi, come le Unità speciali di continuità assistenziale, che abbiamo messo in piedi in velocità e che sul territorio hanno davvero fatto la differenza. Poi il grande salto dei tamponi, dei test sierologici, del drive-through, degli ambulatori Covid: la rapidità con cui abbiamo lavorato è senza precedenti. Infine, prima dei vaccini, la fase delle medicine: dopo aver sperimentato che l’idrossiclorochina non aveva l’effetto sperato sulla malattia, abbiamo capito che farmaci che conoscevamo bene, come l’eparina e il cortisone, erano molto efficaci, specie nelle fasi più acute dell’infezione».
A che punto siamo, adesso?
«In mezzo a un altro salto, quello dei vaccini. Ci sono tante persone che vogliono vaccinarsi, molte di più delle dosi che abbiamo a disposizione. I vaccini sono tanti, diversi, con differenti modalità di conservazione e differenti tempistiche tra la prima e la seconda dose. Anche in questo caso, è sconvolgente la velocità con cui è stata messa in piedi la macchina organizzativa. Oggi, assolutamente, vaccinare è il nostro primo pensiero».
In che modo tutto quello che ha raccontato l’ha cambiata come persone e professionista della salute?
«Nella vita ho vissuto emergenze di ogni tipo, potrei dire che ci sono abituato. Come medico di Marina ero nel battaglione San Marco quando è avvenuto il massacro di Sabra e Shatila: anche se sono sbarcato a Beirut, mi sono trovato a curare ragazzi con l’epatite, l’Aids, la gonorrea. Poi, quando lavoravo agli Ospedali riuniti di Ancona, attraverso l’Albania, abbiamo avuto rapporti con il Kosovo allora attraversato dalla guerra: curavamo i profughi, operavamo i bambini. Infine, mi sono ritrovato a lavorare nell’emergenza terremoto in Umbria e Marche, nel 1997. E poi in quello dell’Emilia nel 2012. Se è vero che l’emergenza è il mio mestiere, il Covid è stato ed è comunque estremamente complesso a livello di rapporti umani. Si continua a dire tutto e il contrario di tutto e i clinici, che dovrebbero limitarsi a un contributo tecnico, parlano forse troppo. La gestione di una pandemia è un fatto sanitario, è vero, ma anche sociologico, filosofico e politico nel senso più ampio del termine».
Per lei quale è stato il momento più critico?
«Senza dubbio la perdita di alcuni amici, in certi casi ex compagni di studi. Non lo avevo messo in conto, ho ancora i loro visi davanti agli occhi».
Per il suo Dipartimento, dunque per i medici di medicina generale, cosa ha significato la pandemia?
«I medici di base, che sono una categoria conservatrice, si sono ritrovati sommersi da una serie di esigenze mai avute prima, con conseguenze spaventose. Tra loro il numero di morti, anche per un fattore anagrafico, è stato più alto. Abbiamo avuto situazioni di disagio psichico, anche suicidi. E diversi di loro sono andati in pensione prima di quanto avrebbero fatto in circostanze normali. C’è stata, nei fatti, moltissima solitudine».
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