Ravenna, il chirurgo plastico in prima linea: "Dopo essermi ammalato, eccomi di nuovo qui"

Romagna | 19 Dicembre 2020 Cronaca
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Silvia Manzani
«La mia vita è cambiata, la mia testa è cambiata». Andrea Carboni, 42 anni, è un chirurgo plastico del Centro grandi ustionati di Cesena che già prima del Covid lavorava come consulente di diversi reparti dell’ospedale di Ravenna, dove da febbraio si occupa anche dell’ambulatorio delle ferite difficili. All’inizio della pandemia, però, ha sentito l’urgenza di mettersi a disposizione dell’azienda sanitaria, come volontario, per dedicarsi anche ai pazienti Covid, un virus che poi ha vissuto sulla propria pelle: «Nonostante la paura che anche tra noi medici aleggiava nei primi tempi, ho capito che avrei potuto dare il mio contributo. Mia moglie e i nostri due bambini non mi hanno ostacolato e così ho iniziato a lavorare al quinto piano, dove mi sono ritrovato a gestire il primo paziente Covid. Ricordo ancora quella porta dietro la quale stavano i ricoverati. Da una parte c’eravamo io e i colleghi, a fare il possibile affinché dall’altro lato le persone non si sentissero sole e abbandonate». Tra i turni infiniti, i cambi d’abito in garage prima di rientrare a casa e l’alcol passato sul corpo dopo la doccia, Carboni ha sentito che il suo posto era comunque lì, in prima linea: «Peccato che il 17 aprile l’ennesimo tampone sia risultato positivo. Ero a casa, quando l’ho saputo. Non c’è stato nemmeno bisogno di spiegarlo. Dalla mia faccia la mia famiglia aveva già capito tutto. Mi sono venuti a prendere in ambulanza per portarmi all’hotel Covid di Lido Adriano. Quando ripenso alle parole dei miei figli, che mi chiedevano se sarei tornato, mi commuovo ancora». Nel giro di poco, per Carboni arrivano i primi sintomi: «Febbre, dolori ossei e muscolari, brividi. Non stavo per nulla bene e così hanno deciso di ricoverarmi. Questa volta, dietro quella famosa porta, c’ero io. Io in mezzo ai pensieri di morte, alla nostalgia delle cose belle, alle mille domande che mi attraversavano. Io che, però, cercavo di fare amicizia con i miei compagni di stanza, di sdrammatizzare su febbre e saturazione, di farmi piacere il panorama di viale Randi, soffermandomi su dettagli». A Carboni viene poi diagnosticata una polmonite bilaterale: «Mi è crollato il mondo addosso, mi sono immaginato la Rianimazione, ho avuto anche un attacco di panico. Mi hanno dato una mano le videochiamate con il mio psicologo, dal quale ho imparato a cogliere, da quel periodo assurdo, un’occasione. Poi, per fortuna, è andata meglio di quello che pensavo. Sono tornato a Lido Adriano, dove sono rimasto 18 giorni. Lì ho creato la chat “Covid beach” per condividere la quotidianità con gli altri pazienti, lì si prendeva il caffè insieme sul balcone, si fotografava l’alba, si ascoltava la musica dal cellulare. Quel cellulare che era l’unico contatto con il mondo ma che poi, alla lunga, ho imparato a odiare». Ma per Carboni non è ancora finita: «Pensavo di tornare a casa, dopo l'isolamento a Lido Adriano. Invece, non stando ancora bene, mi hanno ricoverato per altri cinque giorni. Ne sono uscito il 25 maggio, dopo 40 giorni lontano da casa. Pesavo sette chili in meno, avevo ancora l’affanno e molta paura: in ospedale mi sentivo in qualche modo protetto, a casa no». Dopo un mese di convalescenza, Carboni non ha però un dubbio: «Mi sono rimesso a disposizione dei pazienti Covid, perché ho sperimentato l’importanza che ci siano persone pronte ad aiutare chi sta male. Ora sono al quinto piano, consapevole che non avendo più gli anticorpi potrei essere contagiato di nuovo. Ho ancora paura, specie per la mia famiglia. Il mio corpo è diverso, non sono tornato ancora quello che ero. Ma sono un medico, che cosa sono qui a fare se non per questo?».

Nella foto il gruppo di lavoro del quinto piano Covid il giorno della chiusura
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