Ravenna, Giovanni Zaffagnini si racconta al Mar per l’Università per Adulti

Romagna | 05 Novembre 2022 Cultura
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Federico Savini
«Il mio fondo etnografico è stato acquistato dalla biblioteca Malatestiana di Cesena, ma per l’ennesimo impiglio burocratico è tutto quanto ancora a casa mia. Spero sia solo questione di tempo, sono fiducioso». Interpellare Giovanni Zaffagnini per fare il punto sulle tormentate vicissitudini del suo prezioso fondo fotografico etnografico, realizzato insieme a Giuseppe Bellosi in una ventina d’anni di documentazione sulla Romagna in va di sparizione, è doveroso ma non l’unica ragione per cui torniamo a scrivere del disallineato fotografo di Fusignano. Questo perché l’Università per adulti Bosi Maramotti dedicherà a Zaffagnini, protagonista e relatore, un pomeriggio alla sala Martini del Mar, mercoledì 9 dalle 15.30. «Stradafacendo, retrospettiva del mio percorso etno-fotografico ed artistico» è dunque l’occasione per intervistare Zaffagnini e approfondire il suo punto di vista non ortodosso sulla fotografia e il racconto del passato.
«Sono del ’45 e nei primi anni un amico mi portò nella sua camera oscura, mostrandomi in concreto come si sviluppavano le foto - racconta Zaffagnini -. Diciamo che da lì è partita una passione che poi ha occupato una parte considerevole del mio tempo, per tutta la vita».
Perché, tecnicamente parlando, tu non sei fotografo di professione, giusto?
«Ho ereditato da mio un’attività commerciale avviata e ho vissuto di quello. C’è da dire che il problema principale di non essere un fotografo professionista è stato quello di non poter detrarre i costi, immagina quanti ne ho avuti in vent’anni di ricerche con Bellosi…».
Il lavoro con Giuseppe Bellosi, tra villaggi e borghi contadini, è stato da subito improntato a contestare l’idea nostalgico del passato che andava per la maggiore o questa prospettiva è maturata strada facendo?
«Direi che il nostro punto di vista era chiaro da subito, e fu parecchio contestato. Eravamo consapevoli del senso della nostra ricerca, che stava nell’indagare il mondo del passando, capendo meglio possibile da dove venivamo ma senza lasciarci andare a nostalgie generalizzate e fuori luogo. C’è molto di buono nel passato, ma anche tante cose sbagliare. E la storia non serva a mitizzare, ma a capire. Ci prendemmo parecchie critiche per aver esposto questo punto di vista nel volumetto Romagna Mia, e devo dire che nel mondo dei ricercatori avemmo le nostre difficoltà. Figurarsi poi presso il grande pubblico, negli anni del boom del liscio e quindi di un’esaltazione ben poco critica della tradizione. Un tema che mi pare ancora urgente, visti i recenti risultati elettorali…».
Esaurito il filone dedicato al mondo contadino a cosa ti sei dedicato?
«Dopo vent’anni di ricerche con Bellosi sulla cultura popolare, all’inizio degli anni ’90 ho abbandonato l’etnografia, approfondendo il linguaggio fotografico in senso più stretto, e lavorando spesso su committenza».
Come hai gestito il rapporto tra committenza e velleità artistica?
«Sono stato fortunato, mi sono sempre preso le mie libertà e devo però anche rivendicare che con i committenti, quasi sempre enti pubblici o azienda statalizzate come Enel o Hera, sono sempre stato chiaro: il mio è un punto di vista, che voglio far emergere. Spesso i fotografi sono dubbiosi nei confronti della committenza, per i motivi che la tua domanda lascia intendere, ma in questo io non sono allineato. La committenza i ha portato a confrontarmi con temi ai quali non avrei pensato, quindi è stata di stimolo, un antidoto alla pigrizia. Ci sono tecniche come i lipogrammi letterari dei membri dell’OuLiPo che imponendo costrizioni, tipo non usare una determinata lettera per scrivere un racconto, aiutato a sviluppare la creatività. Mi sono imposto un limite simile per un recente progetto sulla siccità. Ho limitato il campo fotografico ai 50 metri del cortile della casa di campagna di mia moglie. Il problema è stato un altro: dopo quattro mesi di siccità, proprio in quei giorni è piovuto a dirotto! E in questo caso non c’è OuLiPo che tenga…».
Nella tua biografia artistica dici che non ti piacciono le «forzature compositive». Sbaglio o nella fotografia di oggi sono invece molto in voga?
«Credo che gli eccessi della composizione artistica tradiscano la storia della fotografia, di un linguaggio che ha una sua specificità. Oggi mi pare la tendenza dominante, anche perché nel mercato delle gallerie d’arte un “artista”, e dunque non un semplice fotografo, si vende meglio e a un prezzo maggiore. Il rischio è sacrificare l’identità della fotografia sull’altare del mercato, non certo una novità di oggi ma mi spiace che così si perda una delle caratteristiche cruciali della fotografia: la sua ambiguità. Il lavoro di un reporter viene percepito come “la realtà” anche perché i giornali lo usano per parlare dei “fatti”, ma la fotografia è sempre e comunque figlia di un punto di vista non neutrale. La fotografia quindi “somiglia” alla realtà e questa ambiguità è positiva: invita a riflettere, a farsi domande, a leggere tra le righe».
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