Ravenna, Giovanni Sollima alla Rocca con i Cello’s

Romagna | 22 Luglio 2020 Cultura
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Elena Nencini
Appuntamento il 22 luglio alla Rocca Brancaleone con il più rock dei violoncelli, quello di Giovanni Sollima, accompagnato da 14 musicisti dei suo Cello’s e la partecipazione straordinaria di Enrico Melozzi.
Un programma decisamente accattivante - che spazia da Bach a Modugno, da Purcel ai Nirvana - per colui  che è stato definito dalla stampa americana «the Jimi Hendrix of the Cello», per le straordinarie qualità tecniche e interpretative, ma anche per la capacità di instaurare legami tra gli stili e gli ambiti culturali più diversi, ignorando ogni barriera di genere.
Sollima, lei continua a tornare a Ravenna. E’ nata una passione allora?
«Forse è reciproca, ha una dimensione umana, è una città stupenda. Poi è sul mare ed io sono sensibile a questo particolare. Per non parlare del  festival straordinario che ospita, aperto a tutti i linguaggi e a tutti gli incroci».
Dalla musica classica al rock: qual è la difficoltà, sia tecnica che interpretativa, di passare da Bach ai Queen passando per Domenico Modugno?
«È insolito, noi abbiamo un’idea della musica alle volte troppo inquadrata. Invece io amo sperimentare senza vincoli, la mia musica non ha barriere. Il violoncello è uno strumento con un’estensione molto ampia, è agile, può essere da solo o in orchestra. Con l’avvento del violoncello, molta della musica da viola da gamba passa al repertorio di questo strumento. La scelta del repertorio di questo concerto si muove tra brani arrangiati anticamente, musiche originali o pezzi che arrangio io. La linea può sembrare un fritto misto, ma il collegamento c’è: Purcell è stato autore di brani popolari, il tipo di reazione esecutiva non è lontana fra questi brani. Sono testi non dissimili anche come forza ritmica. Il programma tocca degli estremi come la canzone Nuvole di Modugno - il testo di Pasolini è molto forte - all’Hallelujah di Cohen. Quest’ultimo è nel repertorio dei 100 Cello’s fin dall’inizio. È diventato uno dei nostri cavalli di battaglia, in modo spontaneo, perché lascia spazio alle improvvisazioni».
Lei ama molto lavorare con i giovani e parlare a tutti:  il suo è un pubblico trasversale anche per età?
«Non ci ho mai pensato, ma è successo e basta. Ho visitato tanti paesi, ho suonato in luoghi non tradizionali per i concerti, luoghi che fossero aperti ad altri riti, ad altri livelli di percezione. Mi interessavano anche le proposte musicali che mi attiravano in questi accostamenti. Mi ricordo una volta che ho suonato le Suites di Bach davanti a un pubblico di rockettari, che mi incitavano, mi dicevano ‘vai alla grande’. Ho pensato all’importanza dell’idea della condivisione. Io insegno ai giovani, ma imparo anche da loro tante cose».
Ha suonato, sempre per Ravenna Festival, al Tiro a segno, un luogo abbandonato. La musica per lei ha anche un ruolo sociale?
«Si, assolutamente. Mi è successo tante volte, la sensazione che ho provato in alcuni luoghi. Palermo - dove sono nato - ha luoghi che parlano, che raccontano cose inenarrabili, luoghi che stentano a liberarsi da atmosfere negative. Allora ho pensato appunto a concerti in luoghi insoliti: “vediamo che succede”. Il luogo ti racconta qualcosa, puoi liberarlo da una negatività, questa esperienza in luoghi bellissimi, spesso dimenticati, mi fa pensare proprio alla forza della musica, perché non la puoi fermare. E’ un veicolo straordinario per dare un’altra chiave di lettura. La musica ha una forte componente sociale».
Cosa prova quando suona da solo o quando suona con un ensemble?
«È uno strumento che ha un repertorio che lo vede impegnato in molteplici ruoli: cameristico, solistico, individuale o da monologo. È uno strumento che evoca la voce umana, lo dicevano fin dall’antichità. Mi ritrovo spesso in diverse situazioni, da mattatore, da solista, in quartetto. Dà sempre emozioni diverse, legate al giorno, a quello che stai suonando, al tuo corpo, al sole, alla luce. Le emozioni cambiano comunque, cambia la tua mente, il tuo corpo».
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