Ravenna, Gianni Farina dei faentini Menoventi tra Majakovskij all’Almagià e le banlieue francesi
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Federico Savini
«Quando si dice che Majakovskij era un futurista e puntò tutto sul futuro non è tanto per dire. Aveva in mente di morire giovane proprio per potersi un giorno risvegliare nel futuro, quando la scienza l’avrebbe permesso. Epperò, se si fosse svegliato oggi, nella Russi di Putin, non credo gli sarebbe piaciuto». È un’immagine che fa sorridere (ma di un riso molto amaro) questa evocata da Gianni Farini, regista e ideatore con Consuelo Battiston de Il defunto odiava i pettegolezzi, ultimo capitolo della trilogia teatrale che la compagnia faentina Menoventi ha dedicato a Vladimir Majakovskij, e che andrà in scena giovedì 18 alle 21 all’Almagià di Ravenna.
«Dopo L’incidente è chiuso (2019) e Buona Permanenza al Mondo (2020) questo spettacolo chiude la trilogia sul poeta russo - spiega Farina -. Ha debuttato in estate al Ravenna Festival e ora torna in provincia, dopo le repliche a Bassano del Grappa e al festival “Colpi di Scena” a Forlì».
In cosa è diverso dai precedenti?
«Riprende l’impianto degli altri due spettacoli, nonché la derivazione dal romanzo-indagine di Serena Vitale, ma avrà nuove scene e nuovi squarci dalla straordinaria vita di Majakovskij, interpretato da Mauro Milone, mentre Consuelo Battiston vestirà di nuovo i panni della Donna Fosforescente, che accompagna gli spettatori avanti e indietro nel tempo per assistere agli ultimi giorni di vita del poeta e ai suoi incontri con tanti personaggi, interpretati da Tamara Balducci, Leonardo Bianconi e Federica Garavaglia».
Che cos’ha Majakovskij da rivelare alla contemporaneità?
«Cent’anni fa lui già ci parlava, perché si rivolgeva proprio ai posteri, quindi a noi! Un dato saliente della sua biografia è la solitudine. Fu amato come artista ma molto solo come uomo; la cosa lo alienava e lo rendeva invidioso. Il suicidio ha probabilmente molto a che fare con la solitudine, un male anche della nostra società. Un altro tema è poi quello del linguaggio e della poesia. Poco dopo la morte Majakovskij, il critico russo Roman Jacobson pubblicò un saggio efficacemente intitolato Una generazione che ha rifiutato i suoi poeti. Le sue parole sono più vive che mai, purtroppo. Mi pare che oggi ogni forma espressiva sia divorata da un bisogno di comunicazione sempre più piatta, povera e semplificata. Majakovskij rifiutava la banalizzazione della cultura ed era frustrato dal fatto che gli operai non lo capissero. Lui voleva scrivere per loro ma non accettò di scendere a compromessi, di abbassare il livello».
Majakovskij si proiettava nel futuro per incompatibilità col suo presente, ma nel dibattito di oggi si parla molto di “fine del futuro”, di impossibilità di immaginarlo…
«E infatti secondo me questa idealizzazione dell’avvenire, propria di Majakovskij e del movimento futurista, fu un errore. La fiducia che riponevano nel progresso non era ben riposta, oggi possiamo dirlo. Quei giovani di cent’anni fa però vedevano un orizzonte più lungo di noi, che quasi viviamo alla giornata, non vediamo il futuro. Gli unici che sembrano vederlo, e che di sicuro ‘vogliono’ vederlo, oggi mi sembrano i ragazzi del movimento ambientalista giovanile».
A cos’altro lavorate?
«In questo momento a due progetti più snelli, ma torneremo di sicuro su un tema che fu centrale nello spettacolo Docile, visto nel 2018 anche al Masini a Faenza. Il tema è quello delle “differenze di capitale culturale” fra le persone, una forma di diseguaglianza basilare, che si riflette sulle possibilità concrete di ciascuno, nella vita».
I corsi proseguono?
«Ne stiamo tenendo uno a Imola, in collaborazione Tilt, mentre i corsi di Meme a Faenza ripartiranno in gennaio: per bambini delle elementari, ragazzi delle medie e adulti. La novità maggiore coincide con il nostro rientro da Parigi, dove peraltro torneremo, alternandoci una volta al mese con Marsiglia, per laboratori di una settimana in due scuole delle periferie di queste due grandi città. Il progetto Sup de Sub è straordinario: lo stato paga con borse di studio i ragazzi di queste zone difficili perché resistano all’abbandono scolastico e si allontanino dalla strada. Praticamente finanziano i loro studi in istituti in cui si insegna di tutto. E il teatro è toccato a noi».