Ravenna, Fussi (Croce Rossa): «All'ambulatorio migranti anche persone provenienti dai centri di detenzione libici»

Romagna | 21 Gennaio 2022 Cronaca
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Manuela Fussi, attuale ispettrice delle Infermiere volontarie di Ravenna, presta il proprio servizio con altre Infermiere volontarie della Croce Rossa dal 2001 presso l’ambulatorio dedicato ai migranti. Nel suo racconto sono riassunti vent’anni di immigrazione sul territorio ravennate, un flusso che ha portato a visitare minori non accompagnati e persone provenienti dai campi profughi libici. «Siamo un corpo ausiliario delle forze armate - spiega - e otteniamo il diploma di infermiere volontarie al termine di un biennio di formazione all’interno della Croce Rossa». 
Fussi, com’è nato il servizio?
«L’ambulatorio è nato per prestare assistenza ai migranti clandestini privi di una qualsiasi forma assistenziale e lo dobbiamo alla lungimiranza dell’allora referente delle Cure Primarie Vanna Vanni. Lei per prima capi la necessità di un vuoto da colmare e, di conseguenza, organizzò un ambulatorio che aveva la valenza di un servizio di medicina generale». 
Chi furono i primi a frequentarlo?
«Inizialmente nacque per accogliere nordafricani e senegalesi, successivamente registrammo molte donne provenienti dall’Est Europa: alcune lavoravano, ma magari non erano in regola e non avevano il permesso di soggiorno. Non tutte erano in possesso del tesserino Stp (straniero temporaneamente presente) e comunque molte necessitavano di prestazioni che, al di là della visita, non si potevano prescrivere. All’inizio l’ambulatorio era aperto due volte la settimana con medici volontari che avevano scelto di dedicare tempo a chi aveva meno, mentre oggi il servizio viene gestito direttamente dall’Ausl con personale dedicato. Noi abbiamo continuato ad affiancare i medici tenendo la cartella clinica, curando l’armadietto dei farmaci, facendo piccole prestazioni e dedicandoci all’accoglienza dei pazienti».
Dal 2010 il flusso è aumentato? Chi arrivò?
«Sì. Ci furono parecchi sbarchi in Sicilia e molti migranti vennero dirottati sull’hub dI Bologna, oggi chiuso. Da lì furono in tanti a venire da noi: ricordo, nel 2015 e 2016, l’arrivo di molti pullman, numeri considerevoli di persone che poi passarono dal nostro ambulatorio prima di essere inserite nei Cas. Gli arrivi si registravano tutti i giorni, anche il sabato e la domenica». 
Chi è arrivato di recente?
«Ultimamente abbiamo registrato molti pakistani e qualche nucleo familiare proveniente dall’Afghanistan, ma ci sono anche persone che provengono dalla Rotta Balcanica. Abbiamo dovuto fare i conti con situazioni molto pesanti: uomini e donne provenienti dalla Libia e quasi tutti hanno subito un periodo più o meno lungo di detenzione. La maggior parte di loro ha ammesso torture, a volte ne abbiamo visto anche i segni. Per le donne le situazioni in alcuni casi sono molto critiche e siamo coadiuvati dal servizio di Psichiatria. C’è chi ammette la violenza e chi, invece, tende a rimuoverla. In questi casi è fondamentale l’aiuto del mediatore, in quanto molti parlano solo dialetto e la barriera linguistica è forte. Per questo abbiamo imparato il linguaggio del corpo: uno sguardo ed il modo di porsi di una persona dicono tanto. Altre volte è capitato di comunicare ad alcune coppie una sospetta gravidanza». 
Qual è l’atteggiamento di chi entra? La fiducia è difficile da conquistare?
«Inizialmente il timore c’era, soprattutto all’inizio: la paura era quella di poter essere denunciati. Credo, però, che vedere la nostra divisa dia sollievo. Ritengo che una società civile debba avere attenzione verso gli ultimi, inoltre credo che l’attività abbia una grande rilevanza sanitaria per tutta la nostra comunità, pensiamo per esempio alla prevenzione della diffusione di malattie infettive». (fe.fe.)
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