Federico Savini
«Tornare al mito, al mare, al vento e alla bellezza, è qualcosa che dobbiamo fare per forza in quest’Europa frammentata. Ricordare da dove veniamo, che cosa siamo sempre stati e quale sia, in ultima istanza, il nostro destino, è quanto mai necessario proprio adesso, ora che decenni di errori stanno presentando il conto in tutta la loro drammaticità». Paolo Rumiz ha scelto un titolo che vibra al solo pronunciarlo, in questi giorni agitati. Canto per Europa è l’ultima fatica letteraria - l’aggettivo è quanto mai pertinente anche per un eclettico assoluto come lo scrittore, giornalista, affabulatore e viaggiatore di Trieste - che Paolo Rumiz presenterà ben due volte questa settimana nella nostra provincia, invitato da ScrittuRa Festival domenica 15 alle 21 in piazza San Francesco a Ravenna e poi lunedì 16 sempre alle 21 nel giardino della bibloteca Dal Pane di Castel Bologese. È quasi un poema, quello di Rumiz, che riannoda i fili del mito fondativo dell’Europa attraverso la cronaca ovviamente romanzata di un viaggio vero. «Tutto è nato dalla Brexit - racconta Paolo Rumiz -, e in particolare da come l’ha vissuta un mio amico, insegnante di greco e latino in Inghilterra e anche appassionato velista. La persona più adatta, probabilmente, a spiegare agli studenti inglesi cosa volesse dire, di punto in bianco, fare a meno dell’Europa e del Mediterraneo».
Per farlo si ricorre a un mito greco che, in effetti, non credo di sbagliare se dico che quasi tutti gli europei hanno dimenticato…
«Eppure è necessario ripartire da lì. Quando il sogno dell’unità si sfalda e crolla tutto, cosa ci rimane se non il mito delle origini? È stato questo amico a propormi un viaggio sulla sua nave centenaria ormeggiata nel Mediterraneo, che è anche l’unico “personaggio reale” del mio libro. Il viaggio l’abbiamo fatto davvero, da Oriente a Occidente, verso il tramonto, dove le stelle vanno a inabissarsi nell’oceano. Come nel mito di Europa amata da Zeus e com’è sempre accaduto nella storia: l’Europa a ovest ha l’oceano; è un capolinea, i popoli sono sempre arrivati da est».
Il viaggio com’è stato?
«Una grande esperienza che mi ha permesso di accumulare suggestioni su che cos’era, cos’è e cosa potrà essere l’Europa. Abbiamo viaggiato issando la bandiera inglese e quella europea, una provocazione dopo la Brexit, che ha generato domande ovunque attraccassimo. Quelle domande, le idee e le testimonianza raccolte mi hanno portato a pensare di riscrivere il mito dell’Europa, adattandolo al nostro tempo».
In che modo la ragazza siriana del libro, che fugge dalla guerra, rimanda al mito fondativo dell'Europa?
«Nel mito greco Giove poteva possedere la sua amata sulla spiaggia del Libano, e invece la porta in Occidente. Lo fa per sottolineare che il flusso dei popoli è sempre arrivato da Oriente. Ho immaginato lo sguardo dell’Europa del mito come quello delle migranti africane o siriane che arrivano coi gommoni in Occidente. Quello europeo è un mito femminile, indica l’intima vicinanza tra Oriente e Occidente attraverso il Mediterraneo. Il destino millenario dell’Europa è quello di essere un approdo. Che fa cortocircuito con il Mediterraneo di oggi, fatto di naufragi, turismo di massa, riscaldamento climatico e guerra».
Il linguaggio usato è praticamente poetico, complesso anche per i suoi standard…
«Sì, non è stato un libro facile da scrivere ma penso che quella del verso fosse una scelta praticamente inevitabile. Avrei scritto di Giove e degli dei, quindi dovevo io riuscire a raccontare in modo poetico anche i momenti più prosaici, non certo abbassare a terra la levatura del mito. In prosa il risultato sarebbe stato stridente».
Non ha l'impressione che gli europei, percependosi come culla intellettuale del mondo, si siano sentiti per troppo tempo come intoccabili dal flusso della Storia?
«Ci siamo seduti su questi 80 anni di pace. Non abbiamo capito la crisi dei Balcani, che è stata il preludio di una balcanizzazione dell’intera Europa. Allora l’Europa si presentò “in ordine sparso”, senza riconoscere che c’era un aggredito. Di fatto venne accettato il punto di vista di Serbia e Croazia e dunque l’idea che si dovesse tendere a una divisione etnico-nazionale. La Bosnia invece era etnicamente mista in modo meraviglioso, ma venne inquadrata come un’anomalia per la sicurezza europea verso il terzo millennio. Abbiamo accettato quest’idea in base alla quale un Paese di “diversi” fosse inaccettabile. È prevalso un concetto monolitico delle nazioni, e da questo è partita una frammentazione che non sembra fermarsi».
Tutto questo contraddice le retoriche sull’apertura e l’integrazione dei popoli, che credevamo molto europee…
«Abbiamo rinunciato, di fatto, alla pluralità. Cosa c’era di più europeo di Sarajevo? In quella città ogni famiglia cristiana aveva una pentola di coccio in cui non aveva mai cucinato il maiale; serviva per poter preparare il cibo per gli amici musulmani. Questo era Sarajevo. Oggi è una città molto più islamica di prima, è terra di conquista per Erdoğan e gli emiri. E questo non è nell’interesse dell’Europa, come quello che sta accadendo in Ucraina. È sempre più evidente l’interesse primario degli Stati Uniti in questo conflitto. Io mi preoccupo della gente, il popolo ucraino sta morendo ma i politici non cercano la pace. Proprio in questi giorni l’ambasciatore ucraino a Berlino ha dato dei pusillanimi ai suoi interlocutori tedeschi, ci viene chiesto di non eseguire la musica di Tchaikovsky e cose del genere. L’Europa dei popoli deve rivendicare sé stessa: Putin ci ha voluto far credere che la Russia fosse fuori dall’Europa e noi gli abbiamo dato una mano, ma non è così. Ricordiamocelo».