Ravenna, cittadinanza onoraria a Cesare Moisè Finzi: "Noi venivamo trattati come cani"

Romagna | 31 Gennaio 2020 Cronaca
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Silvia Manzani - “Ragazzi usate la vostra testa, non crediate a tutto ciò che vi dicono. A me, da bambino, fu chiesto dov’era la coda, perché c’era chi pensava che gli ebrei fossero come cani”. Cesare Moisé Finzi, novant’anni, cardiologo e scrittore nato a Ferrara e residente a Faenza, al teatro Alighieri di Ravenna, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria dal Comune, ha raccontato ai ragazzi delle scuole medie la sua esperienza di vita in seguito alle leggi razziali del 1938: “Non dimenticherò mai il 3 settembre, quando uscii per comprare il giornale per mio padre ed ebbi la brutta idea di aprirlo. C’era scritto che i bambini come me, nella scuola pubblica, non potevano più andare. Mi mandarono a quella ebraica di Ferrara ma quando mi presentai in un istituto pubblico insieme al mio amico Nello, poi morto in un campo di concentramento nel 1945, per sostenere l’esame, i nostri nomi non si trovavano. Il preside scoprì che erano scritti in piccolo, in fondo, nell’ultimissima pagina. Quando gli altri bambini seppero che eravamo ebrei, iniziarono sberleffi, risate, grida, prese in giro”. Moisé Finzi ha anche impressionato gli studenti descrivendo che sui documenti dei suoi familiari c’era scritto “appartenente alla razza ebraica” e chi denunciava un ebreo riceveva un compenso: “Eppure io sono qui e se sono qui è perché tanti italiani, per fortuna, hanno saputo distinguere tra quello che era giusto è quello che era sbagliata e ci hanno aiutati, invece di denunciarci”. Dopo l’armistizio, il cardiologo perse anche gli zii Renzo e Lucia e i cugini Germana, Olimpia e Alberto, catturati dai fascisti e portati in un lager in Austria: “Solo di recente abbiamo saputo che passarono di lì per poi essere deportati ad Auschwitz, dove furono uccisi”. I genitori di Moisé Finzi, convinti da uno zio, decisero di scappare per non essere catturato: “Nell’elenco dei fascisti c’era anche il mio nome, ragazzino di tredici anni. Ma noi eravamo in fuga in treno verso Sud, scendemmo a Ravenna perché stava per scattare il coprifuoco. Eravamo in dieci, non sapevamo dove andare. Gli albergatori ci avrebbero denunciato. Allo zio Giuseppe venne in mente il signor Gino Muratori, conosciuto poco tempo prima, che viveva lì vicino. Invademmo casa sua. Mentre spiegavamo la situazione, la moglie di Gino si affacciò e disse che non ci avrebbe fatto uscire da casa sua. Se i Muratori ci avessero denunciato, sarebbero diventati ricchi. Invece ci diedero da mangiare, ci ospitarono a dormire. Per un anno, fino alla Liberazione, hanno continuato a proteggerci. Mai niente ci è mancato. Questo vuol dire essere donne e uomini veri, donne e unioni giusti”. Dopo Ravenna, la famiglia si rifugia a Gabicce, prendendo in affitto i locali di una pensione chiusa: “Lí sapevano che eravamo ebrei ma nessuno mai di denunciò. Anzi, ci procurarono documenti con nomi falsi, io non ero più Finzi di Ferrara ma Franzi di Milano. Pensate che cosa significa, per un bambino, dover smettere di usare il proprio nome, a rischio della vita”. Sulle colline di Mondaino, la famiglia finse di essere cattolica: “Eravamo a Montefiore Conca quando arrivarono le truppe angloamericane. Quando scoppiò la prima bomba, una scheggia colpì mio fratello di nove anni al piede. Decidemmo di passare la linea del fronte per farlo curare. Un militare di pelle nera - la prima persona di pelle nera vista in vita mia - ci aiutò a passare e ci liberammo. A Mondaino trovammo un piccolo ospedale da campo dove però era vietato fare entrare i civili. Restammo lì, in attesa di qualcosa. Un capitano medico dell’esercito americano si offrì di operarlo anche se da sveglio. Mia madre, quando è morta, aveva ancora i segni dei denti di mio fratello sulla mano. Assistetti all’intervento: ho ancora nelle orecchie il “cric” che faceva il cucchiaino usato da quel capitano sulle ossa di mio fratello”. Dopo il 25 aprile 1945 e il rientro a casa, la ripresa della vita normale: “Ma che cos’era la normalità dopo sette anni di persecuzioni? E che cos’era stato dei nostri cari? Per riprendermi la vita, andai al liceo scientifico. Quando il preside fece l’appello, il mio nome c’era. Ma mi misi nell’ultimo banco in fondo, perché non sapevo come mi avrebbero accolto. Quella classe fu meravigliosa, grazie a quei compagni e quei professori ho potuto proseguire gli studi, laurearmi in medicina e in cardiologia”. Oggi, in pensione, Moisé Finzi non smette di incontrare i giovani: “Tra poco tempo nessuno potrà più spiegarvi di cosa è capace l’uomo e quello che è stato”. 
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