Quei sorsi tutti romagnoli del «Club dei Bianchi»

Romagna | 11 Aprile 2021 Le vie del gusto
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Riccardo Isola - C’è una Romagna enologica che sorprende. E’ quella« vestita dibianco». Una tipologia di vini che vede nel Trebbiano (nelle sue versioni generiche soprattutto in pianura, Igp o a denominazione) fare la voce del padrone con milioni di bottiglie prodotte ogni anno. Ma non solo: Albana, Pignoletto e Rebola (Grechetto gentile), Bombino bianco (Pagadebit) e Famoso sono altri vitigni e vini che portano la Romagna essere un territorio fortemente vocato alla versione bianchista. Non a caso dodici cantine hanno deciso, da qualche anno, di mettersi insieme proprio con lo scopo di promuovere questa tipologia romagnols. Si chiama «Club dei Bianchi in Romagna», sodalizio che coinvolge, nello specifico aziende e cantine che coprono un areale parallelo alla via Emilia. Si tratta di Ballardini (Forlì), Branchini (Imola), Celli (Bertinoro), Fondo San Giuseppe (Brisighella), Merlotta (Imola), Monticino Rosso (Imola), Randi (Fusignano), Tenuta Saiano (Torriana), Tenute d’Italia (Imola), Tenuta Uccellina (Russi), Tenuta Masselina (Castel Bolognese) e Zavalloni (Cesena). Questa riscoperta ed esplosione delle «cento sfumature di giallo», tocca la Romagna che per una volta cerca di non rimanere indietro rispetto ai trend e alle mode di oggi. Basti ricordare che già dal 2017 la produzione dei bianchi con il 54,1% ha superato quella più «tradizionale» e soprattutto «sangiovesasca» dei rossi, ferma al 45,9, (fonte Wine Monitor Nomisma). 

RIVOLUZIONE BIANCHISTA
Una rivoluzione che, secondo studi, dipende da fattori sociali e da cambiamenti climatici che hanno dilatato la stagione calda spostando in avanti il consumo dei rossi, ma soprattutto dal fatto, anche, che si è cominciato a mettere a fuoco nei binocoli aziendali il target della qualità della produzione. Ci sono approcci assolutamente diversificati e personalizzati ma, soprattutto per l’Albana, capaci di rispecchiare un territorio che grazie ai suoi vigneron si presenta in forme anche molto differenti ma capaci di parlare una «lingua» enoica comune o per lo meno convergente. E non è certo una banalità o una caratteristica così comune, in Romagna, fino a qualche anno fa. La strada è segnata ora spetta al mercato, saper dare quell’ulteriore spinta affinchè in Romagna, magari sul bagnasciuga enogastronomico adriatico che richiama milioni di persone ogni anno, si promuova e valorizzi sulle tavole anche il buon vino bianco di queste terre.  

I BIANCHI DI ROMAGNA
Come si diceva al di là dei grandi classici autoctoni di grande pregio, su tutti l’Albana, tra l’altro prima Docg d’Italia bianca, i cui grappoli si sviluppano dall’imolese dove predomina il frutto nei suoi sorsi passando per le colline faentino-forlivese-cesenate dove invece acquista imprinting che richiamano ai fiori e, soprattutto a Bertinoro, grandi sensazioni iodate. Un vitigno che è in forte crescita dal punto di vista degli impianti realizzati registrando una crescita di produzione che sfiora le quasi 200 mila bottiglie in tre anni (dalle 578 mila nel 2017 alle 756 nel 2020, fonte Consorzio Vini di Romagna). Si arriva poi a sua maestà, dal punto di vista quantitativo e di estensione vitata, del Trebbiano (quasi 14.200 ettari coltivati) che, tra le altre trasformazioni, da alcuni anni, la si può trovare anche nella versione Doc «Romagna Spumante». C’è poi il Grechetto gentile, che sui colli di Rimini prende il nome di Rebola, mentre a Imola e sui colli bolognesi, diventa Pignoletto, un vino fortemente legato al terroir di produzione che sta riservando sempre crescenti e piacevoli sorprese. Infine non si ci può dimenticare del Pagadebit (Bombino bianco) diffuso, anche per ragioni economiche e storiche, in tutta la Romagna.

NON SOLO VITIGNI AUTOCTONI
Non ci si può però dimenticare dell’altra parentesi vitivinicola che caratterizza la Romagna. Quella magari meno blasonata, ci si passi il termine, che trova nel substrato ricco di argille, limi, sabbie e ghiaie il dna morfologico e geologico in cui le viti trovano linfa vitale. Ambienti in cui il livello medio di altitudine rispetto all’Adriatico, non supera le poche decine di metri. Territori in cui recentemente hanno preso piede anche approcci di «archeologia» enoica in cui vitigni minori e riscoperti trovano, per esempio nel lughese, testimonial come il Famoso (Rambèla, nella Bassa Romagna). Un vitigno semi aromatico che grazie alle diverse interpretazioni sa regalare anche simpatiche emozioni. Infine ci sono tassellature di altri vitigni, per lo più di origine alloctona, quindi internazionale come il Pinot bianco, il Sauvignon blanc, il Riesling o lo Chardonnay che donano vini eleganti o blend, che mixano intelligentemente, autoctoni romagnoli e internazionali.
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