Piangipane, Mr.Lucky Luciano e la storia dei Good Fellas: 30 anni festeggiati al teatro Socjale

Romagna | 31 Marzo 2023 Cultura
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Federico Savini
«Louis Prima, il nostro grande modello, diceva sempre “Play pretty for the people”, cioè vai sul palco per far stare bene la gente. Ed è così. Chi suona dei Good Fellas, da trent’anni, non è solo un bravo musicista, ma è proprio uno adatto alla nostra orchestra, uno che sa scherzare e stare al gioco. La musica la prendiamo sul serio, è su noi stessi che c’è d’obbligo la leggerezza». Mr.Lucky Luciano, al secolo Stelio Lacchini, contrabbassista, cantante e fondatore dei Good Fellas si appresta a festeggiare ufficialmente i trent’anni dell’orchestra swing più pazza d’Italia venerdì 31 marzo alle 21.30 al teatro Socjale di Piangipane, uno dei luoghi ai quali il gruppo romagnolo famoso in tutta Italia è più legato. «È un teatro importantissimo per la sua storia - commenta Lucky -, una storia di cooperazione vera, quando l’arte era intesa come il bene della comunità. Ed è importante perché il Socjale ha tracciato una linea molto chiara e molto nuova per locali di quella dimensione. Non a caso in trent’anni di attività hanno ospitato anche artisti che hanno fatto la storia».
Ma dov’è che sono nati precisamente i Good Fellas?
«Anche se siamo per la gran parte forlivesi siamo nati a Faenza, al Clan Destino, il 2 aprile del 1993. Chicco Montefiori ci fece debuttare lì, poi anche Luca Bonucci era di Faenza. Io e Fabrice “Bum Bum” La Motta venivamo dal rock’n’n dei bolognesi Jumpin’ Shoes, avevamo anche girato l’Europa ma io sentivo la necessità di incorporare altro nella nostra musica. Era come se mi chiamassero Louis Prima e Fred Buscaglione…».
Cioè la parte più italiana dello swing e del rock’n’roll…
«Sì, gli italo-americani hanno sempre avuto uno stile distintivo, anche Dean Martin e Sinatra, e poi in Italia abbiamo avuto figure geniali come Buscaglione e Carosone che italianizzarono alla grande il boogie-woogie. Io vedo un legame anche con la cultura comunitaria, di sinistra, della Romagna in cui sono cresciuto, una cultura della condivisione. I Good Fellas suonano una musica che nasce nell’America della segregazione razziale, ma ha contribuito a spezzare quelle catene».
Il gruppo è cambiato negli anni?
«Ci siamo assestati in pochi mesi, nel ’95 fondamentalmente i Good Fellas sono diventati ciò che sono ancora oggi, il che significa comunque alternare una rosa di musicisti che supera per numero l’organico standard, che va da 6 a 9 elementi. Parliamoci chiaro: un’orchestra swing che fa trent’anni di attività in un contesto difficile per l’arte come l’Italia di oggi è una vera anomalia. Non tutti i Good Fella sono professionisti a tempo pieno, molti hanno lavori giornalieri e tutti abbiamo formazioni collaterali, oltre a fare da house-band al Summer Jamborre di Senigallia e non soltanto. In quei casi accompagniamo le star che arrivano dall’estero».
Le collaborazioni e, quindi, anche la versatilità, sono vostri tratti distintivi. Il segreto della vostra longevità?
«Insieme alla versatilità ci metto anche la caparbietà, perché occorre anche coraggio nel farsi trovare sempre pronti. Rimpiango un manager come Paolo Guerra, che aveva un passato da musicista coi fiocchi e per anni lavorò al fianco di Paolo Rossi, Aldo, Giovanni e Giacomo e tanti altri. Nel 1999 ci ingaggiò per aprire lo show di Aldo, Giovanni e Giacomo, all’apice della popolarità, davanti a 35mila persone. In una giornata in cui diluviava. Loro nemmeno avevano deciso se esibirsi o meno che ci mandarono a suonare. Eravamo convinti che il pubblico ci avrebbe fischiato dal primo istante e portammo sul palco tutta la nostra “romagnolità”. La gente si divertì. Poi, salirono sul palco ma un acquazzone li costrinse a rientrare e il pubblico fu rimborsato. Pensavo sarebbe finita lì, ma Paolo Guerra ci richiamò dicendo che il nostro spirito aveva convinto i ragazzi, che con noi potevano divertirsi. E così è finita che abbiamo continuato per anni a lavorare con loro festeggiando il quarto di secolo e il trentennale della loro attività».
Vi siete legati poi anche ad altri…
«Ci possiamo considerare amici anche di Cochi e Renato, altri due che confermano che più un artista e grande e più lo è anche a livello umano. Con loro, e per poco che abbiamo potuto vedere anche con Jannacci, era come essere sempre in scena. Sono esattamente uguali a come li vedi sul palco. Ma questo vale anche per i giganti della musica americana che abbiamo accompagnato. Prendi Ben E.King, ci ha conosciuto il pomeriggio del concerto e ci ha chiamati tutti per nome fino all’ultima canzone del concerto. Mi ha chiesto di suonare da solo, davanti a 20mila persone, l’intro al basso di Stand By Me. Ero già un veterano ma ho tremato, però che esperienza!».
Quanto è cambiata, in trent’anni, l’attività dei Good Fellas?
«Tantissimo, e non in meglio. A parte le band collaterali che ci permettono di suonare in diversi contesti e con un altro repertorio, cosa per me soddisfacentissima, fino ai primi anni duemila avevamo una media di 120 concerti l’anno, senza contare cose come Aldo, Giovanni e Giacomo, mentre oggi ne faremo una ventina. Il fatto è che mancano proprio i locali. In Italia c’erano 140 locali dedicati al rock’n’roll; oggi ne resta una quindicina. Nel corso del tempo sono venute a mancare le feste di corporazione e sempre più spesso le aziende preferiscono eventi sportivi. E poi è calata la cultura dei club e della musica di prossimità. Il circuito indipendente, quelli dei concerti sotto casa, a 10 euro, come abitudine quotidiana, sta boccheggiando, mentre gli eventi enormi da decine di migliaia di persone sono pieni con biglietti raddoppiati. Purtroppo prevale la voglia di farsi un selfie in mezzo alla folla o con un artista primo in classifica, ma questo mortifica tutta la musica che tiene viva l’Italia nei luoghi in cui si socializza per davvero, anziché chiudersi in casa davanti alle piattaforme tv per poi lamentarsi che aumentano le tariffe. Si è disgregato il filo che conduce la socialità all’arte, ma è una cosa che i miei eroi conoscono: i grande del rock’n’roll furono travolti dalla british invasion e gli orchestrali dello swing patirono la crisi delle big band negli anni ’40. La musica è sempre più un sogno, ma pur con tutte le difficoltà se mi guardo indietro non scambierei mai le scelte che ho fatto con una vita impiegatizia che non fa per me. E sono anche convinto di avere fatto del bene a tante gente, per trent’anni, con i Good Fellas».

 
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