Piangipane, Marco Zanotti tra il nuovo album, l’Africa e il concerto al Socjale

Romagna | 09 Dicembre 2022 Cultura
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Federico Savini
«L’impressione di questi primi mesi invernali post-pandemia è che a breve torneremo alla situazione pre-Covid. Il problema è semmai che oggi un musicista deve dedicare circa metà del suo tempo a guardare bandi e intercettare fondi per festival e progetti. Il sistema attuale dei bandi fa calare molto “dall’alto” i finanziamenti per arte e cultura. E nel complesso privilegia chi ha già le spalle grosse ed meno attento all’avanguardia. E alle emergenze sociali». Marco Zanotti si sta prendendo una specie di pausa, dopo un’estate che l’ha visto attivissimo con le sue percussioni, in giro per l’Italia (e non soltanto) e miriadi di progetti.
Marco Zanotti conferma di far parte di quella lunga e florida tradizione della musica di ricerca che porta avanti un’ideale, che quand’anche non fosse proprio del tutto «politico» è certamente civile ed etico, improntato l’idea non solo di immaginare e progettare, ma proprio di costruire un mondo migliore. E «pausa» per lui significa la pubblicazione, in digitale, degli «Inferno Tapes», ossia la colonna sonora dell’acclamato e visionario spettacolo Aldes di Roberto Castello, e la presentazione ufficiale del disco «Are you strong?», pubblicato in primavera in tandem con il griot gambiano Jabel Kanuteh e arricchito da numerosi ospiti che in buona parte suoneranno con i due titolari venerdì 9 al tetaro Socjale di Piangipane. «Possiamo chiamarla la “presentazione formale” del disco, in effetti - dice Zanotti -. Perché siamo riusciti a coinvolgere quasi tutti quelli che hanno suonato in studio insieme a noi».
Chi si esibirà a Piangipane?
«Insieme a Jabel e me ci saranno Paolo Andriolo (basso), Kalifa Kone (percussioni), Francesco Guerri (cello), Gianni Perinelli (sax) e Fabio Mina (flauti). Nel 2020 io e Jabel facemmo un disco in duo, “Freedom of movement”, senza sovrincisioni o altro. Per “Are you strong?” abbiamo coinvolto musicisti che avevano già suonato con noi in modo estemporaneo e abbiamo quindi lavorato su arrangiamenti e melodie, dato che questa volta Jabel canta in tutti i pezzi».
Non è il primo griot con cui collabori. Che particolarità ha?
«Il griot nell’Africa occidentale è un cantastorie il cui ruolo culturale è riconosciuto dalla società. Lui è erede di una famiglia di musicisti di kora con radici lontanissime. Ha scelto di migrare per conoscere l’Europa, pagando lo scotto della sua condizione di africano migrante attraverso mille peripezie. Si è stabilito nelle Marche e amici comuni ci hanno messo contatto, dato il mio interesse per le musiche africane. A casa mia abbiamo suonato per tre giorni. L’intesa è stata subito magica, anche perché lui è totalmente padrone della sua tradizione musicale ma anche molto aperto»
Invece «Inferno Tapes» è un lavoro tuo più da compositore e sperimentatore…
«Nasce come colonna sonora dello spettacolo di Roberto Castello, che gira da un anno con grande successo e tra poco attraverserà l’Europa con i suoi fantastici danzatori, le scenografie spettacolari e anche le mie musiche, che ho elaborato insieme a Roberto in una costruzione creativa, non pianificata e graduale dello spettacolo. Un modo nuovo, anche per me, di comporre e poi rielaborare in studio. Anche perché qui c’è molta elettronica, tanta Africa ma anche tanta techno, il minimalismo storico, le kalimbe distorte…».
Proprio dall’Africa, non a caso, sta fiorendo un’interessante scena di musiche elettroniche. Le segui?
«Sì, sono molto appassionato di Nyege Nyege Tapes e altre realtà meno emerse che forniscono dell’Africa un’immagine assai poco stereotipata e creativamente molto felice. Parlare di “Africa” in generale può però essere fuorviante. Parliamo soprattutto di Uganda e Kenya, oltre che al Sudafrica che ha una storia musicale e di contaminazione culturale come noto molto particolare, e pure problematica. Ma si tratta di Paesi che, a differenza di quelli dell’Africa subsahariana, promuovono l’interscambio culturale tra neri e bianchi, dove c’è un rapporto più paritario che altrove, dove i festival e le etichette musicali a volte nascono dall’incontro e dal dialogo fra culture. Tra l’altro le musiche di oggi erano state anticipate, una ventina d’anni fa, da realtà come i Konono n.1 che nel Congo elettrificarono strumenti della tradizione, imparentandosi con techno e minimalismo del Nord del mondo. Oggi, in luoghi come il Kenya e la Tanzania, spesso l’imprenditoria bianca e quella entra non solo coesistono ma collaborano anche, e l’offerta culturale è accessibile e non elitaria».
Tornando al concerto di Piangipane, l’album «Are you strong?» fa riferimento a un gioco di carte dell’Africa Occidentale, ma pone anche una domanda sulla nostra fibra morale, sulla forza delle nostre idee. Secondo te se la fanno in molti oggi?
«Credo che in molti se la siano fatta in pandemia, situazione che ci ha in qualche modo costretti a riflettere su noi stessi e il nostro ruolo sociale. Il problema è che questa domanda, sulla “tenuta” dei nostri valori, dovremmo continuare a farcela. Quel disco è chiaramente una critica al cosiddetto turbocapitalismo».
Si parla tanto di attivismo oggi, ma non credi che si tenda molto alla dispersione degli sforzi?
«Quella c’è, ed è inevitabile proprio a causa dell’ineluttabilità del capitalismo. I credo nel valore dell’attivismo, ho il privilegio di avere un microfono in mano e mi sento automaticamente investito di una responsabilità pubblica. I messaggi che mando sono inevitabilmente politici, la questione dell’“arte per l’arte” non fa per me. E devo dire che di “attivismo vero” nella musica ne vedo poco oggi, anche perché il mercato premia tutt’altro. Le battaglie sulla casa o sui diritti civili passano spesso in secondo piano. Nei giorni scorsi a Rimini c’è stata una manifestazione contro l’ingiunzione di sgombero per casa Madiba, un centro sociale che andrebbe invece salvaguardato per ciò che ha fatto e che fa per la controcultura e l’accoglienza. L’opinione pubblica va sensibilizzata su questo, ma spesso la politica bistratta questi luoghi. Ed è proprio qui che dobbiamo chiederci se siamo forti abbastanza».
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