Piangipane, al Socjale il nuovo spettacolo di Luigi Dadina

Romagna | 02 Ottobre 2021 Cultura
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Federico Savini
«Sono nate tante cose, durante le notti insonni in questo tempo di pandemia. E tra questo il titolo dello spettacolo, che fa riferimento alla confusione delirante del protagonista, che tra le altre cose è convinto di avere due madri, poetesse e in qualche modo “antiche”. E così, come sempre accade nelle favole e nel linguaggio dei romagnoli, sempre indefinito, anche quando si parla di cose concrete come i figli, che ci fai caso sono sempre 4 o 5, mai un numero preciso, anche gli anni nei quali affonda l’immaginario del mio protagonista sono mille, o giù di lì». Si chiama Mille anni o giù di lì il nuovo spettacolo di Luigi Dadina, pilastro del Teatro delle Albe che di fatto inaugura la nuova stagione teatrale del Socjale di Piangipane, dove lo spettacolo sarà in scena l’1, 2, 7, 8 e 9 ottobre alle 20.30, ma anche le domenica 3 e 10 alle 15.30 (oltre a qualche replica per le scuole). Nato in collaborazione con il fidato contrabbassista e compositore Francesco Giampaoli, ma dell’acclamato fumettista ravennate Davide Reviati (presente con immagini e animazioni), lo spettacolo si avvale anche di registrazioni vocali di Elena Bucci, mentre Laura Gambi ha collaborato alla drammaturgia. Come ci ha ormai abituato, Dadina ha inteso questo primo giro di spettacoli come un corpus di eventi che si inanellano e prevedono appuntamenti speciali. Sabato 2 alle 18 Alberto Cassani precederà lo spettacolo presentando il suo romanzo Una giostra di duci e paladini (Baldini+Castoldi) in dialogo con Marco Martinelli, mentre domenica 3 ottobre, dopo lo spettacolo, Massimo Marino dialogherà con Laura Gambi su «Mariella Mehr e Giuliano Scabia, psichiatria e immaginazione». Infine, domenica 10 ottobre sarà a «Papusza, poetessa nomade. Immagini e poesia», che Goffredo Fofi dedicherà il dialogo conclusivo, con Davide Reviati.
«Io e Davide ci conosciamo da una vita - spiega Dadina -. Abbiamo qualche anno di differenza ma siamo cresciuti al villaggio Anic e facciamo entrambi gli artisti. Diciamo che “ci guardiamo” da sempre».
Questa di Mille anni o giù di lì si può definire la vostra prima collaborazione?
«Qualcosa di sporadico ci fu già trent’anni fa, ma questo è davvero il “nostro” progetto, e proprio Davide ha voluto chiamarlo così non appena gli ho detto che era ora che facessimo qualcosa insieme. Tutto è nato due anni fa, poche settimane prima del Covid, quando Lanfranco Vicari ci chiamò entrambi al Cisim, insieme a Francesco Giampaoli, per parlare di “arte e periferia” a partire dai nostri ultimi lavori. La serata fu memorabile e da lì è scattata la molla di coinvolgere Davide in un lavoro pensato insieme a lui dall’inizio».
Di cosa racconta lo spettacolo?
«È la vita di un uomo anziano, che non esca da casa da chissà quanto tempo, che finisce sul palco, insieme ai suoi deliri, la sua feconda immaginazione e quello che carpisce, poi distorcendolo, dal mondo esterno. L’ambientazione è certamente periferica, di fatto siamo al villaggio Anic ma potrebbe trattarsi di qualsiasi periferia cittadina del nord del mondo. Tra i deliri c’è appunto quello delle due madri, due potesse zingare reali, ossia Bronisława Wajs, meglio nota come Papusza, un’importantissima figura della cultura rom e non solo, ancora quasi ignota in Italia e della quale proprio Davide Reviati traccia un profilo in chiusura di Sputa tre volte; e poi c’è Mariella Mehr, scrittrice e poetessa svizzera di etnia Jenisch».
Lo spettacolo si direbbe, più che un monologo di Luigi Dadina, un «soliloquio a più voci», con quella musicale di Giampaoli, quella registrata di Elena Bucci e ovviamente i disegni animati di Reviati. Da un punto di vista registico che tipo di lavoro è?
«Assistiamo come spettatori a cinque frammenti di giornate di quest’uomo, perennemente chiuso in casa. E’ lui stesso che ha il vizio di registrare, di imprimere su nastro ciò che vive, in maniera ossessiva e confusa insieme. Nel racconto della sua vita interiore si inseriscono così i suoi sogni, incarnati dai filmati di Davide, e le voci di donne che per lui rappresentano proprio “il femminile”, che rimane irraggiungibile. Diciamo che lui ha anche una “tendenza amorosa”, non mi sento di definirla oltre, per una donna del suo quartiere, che rappresenta per molti aspetti un’esistenza speculare alla sua, ma finita comunque male. A tutto questo si aggiunge la musica di Checco Giampaoli, con il quale collaboro da tanto tempo, da una serie di corsi che hanno contribuito anche a far nascere il Cisim, e l’intesa che abbiamo affinato negli anni permette di intrecciare al meglio musica e parole. Perché anche la musica sa parlare e si può dire che puntiamo all’indistinguibile, a fondere la musica e il linguaggio parlato».
C’è l’idea che la storia privata del protagonista, intrisa di delirio, possa anche farsi racconto collettivo di una città e di una comunità?
«Beh, questo spettacolo parla senz’altro anche della generazione del ’77, quella che ha avuto così tanti morti per l’eroina. E’ qualcosa che ci portiamo sempre dentro, aver perso così tante persone in così pochi anni è un autentica trauma generazionale. E poi la società e il mondo esterno entrano nella vita del protagonista e dello spettacolo. Si parla molto di una fabbrica, di lavoratori pagati per rimanere a casa e poi di un cane a sei zampe che improvvisamente appare all’orizzonte… E’ sempre stato chiaro a tutti noi del Teatro delle Albe che non si può distinguere in modo netto fra interiorità e politica. La società e i suoi problemi sono sempre centrali, anche nel più privato dei drammi, perché il mondo è qualcosa che siamo noi, ogni giorno attraverso pensieri, scelte, azioni e reazioni, che contribuiamo a creare e distruggere».
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