Nina, a Ravenna dal 1948: "La guerra è un'altra cosa"
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Barbara Gnisci
«A me la vita, con il Coronavirus, non è cambiata molto. Sono invalida e non cammino più da 14 mesi. La cosa che mi manca di più sono le mie nipoti e pronipoti, ma ci vediamo su Skype, che mi sembra proprio una diavoleria». Antonina Alfonso, detta Nina, nata a Randazzo, in provincia di Catania, ha 92 anni e vive a Ravenna dal ‘48, quando sposò Nunzio che, tornato a piedi dalla Russia nel ‘46, si era fermato vicino ad Alfonsine per iniziare una nuova vita: «Tutte le sere ci colleghiamo - continua Nina - e con le mie nipoti ci facciamo due risate. Cerchiamo di sdrammatizzare». Quando la donna chiacchiera con sua figlia Ausilia, un po’ per scherzo e un po’ sul serio le dice che il Covid- 19 l’hanno messo nell’aria: «Non penso che ne usciremo, soprattutto a causa dei comportamenti scorretti di molte persone. Non è più come una volta, che anche in tempo di guerra, c’era tanta umanità e riconoscenza». E Nina lo sa bene, visto che dal suo Paese, insieme alla sua e ad altre famiglie, è dovuta scappare a causa dei bombardamenti: «La guerra me la ricordo come se fosse ieri. Era il 13 giugno del 1943. Quella notte non riuscimmo a raggiungere il Monte Spagnolo e dormimmo nel bosco. A un certo punto, un elicottero gettò a terra dei volantini in cui c’era scritto che non era un luogo sicuro, lo avrebbero preso a cannonate. Arrivati alle pendici del monte, ci fermammo in una grotta e dormimmo su giacigli di foglie. L’acqua l’andavamo a prendere alle falde dell’Etna: enormi pezzi di ghiaccio che facevamo sciogliere all’interno di coppi e mangiavamo il pane che riuscivamo a fare con il grano che ci eravamo portati. Rimanemmo lì dieci giorni e una volta tornati in paese, non potemmo entrare in casa, perché era stata bombardata. Ma per noi il peggio era passato, il fronte si era spostato al Nord. Ed è qui che Nunzio, dopo aver preso un terreno, viene raggiunto dalla famiglia: «Io dovevo farmi suora, mia madre voleva così, ma poi lei morì di infarto e i miei fratelli vollero che rimanessi a casa. A me prese una specie di esaurimento. Nel frattempo ero diventata bella e qualche pretendente si faceva avanti, ma a me non interessavano». Fino a quando vide Nunzio che era tornato in paese per vendere un raccolto: «Parlava così bene, era intelligente, preparato. Quando lo vidi andar via, dopo aver pranzato da noi, io ero alla finestra e pensai: “Ma come starei bene con quel ragazzo!”. Per mesi mi arrivarono delle lettere e anche un diario che cominciava così: “Quella domenica di metà marzo quando per la prima volta vidi Nina”. Lo conservo ancora tra le cose più care». Nel settembre del 1948 Nina e Nunzio si sposano e lei viene a vivere a Sant’Antonio: «All’inizio eravamo in tredici in tre stanze, ma quanta pace e armonia nella sua famiglia. A me mancava la mia, ma quando vedevo lui, io vedevo tutto». Nel ‘54, con la riforma agraria, a Nunzio, Nina e al cognato spetta un podere con cinque ettari di terra: «Nel ‘63 mio cognato ci cedette la sua parte e poi nel ‘68, dopo la morte di mio marito, a causa di un incidente sul lavoro, vendetti tutto per comprare casa a Ravenna». Oggi Nina vive con sua figlia e il suo genero, trascorrendo le giornate tra rosoni, messe in tv e lavoro all’uncinetto: «Noi stiamo bene, siamo felici e siamo e anche un po’ in salute, almeno io. La guerra e il Coronavirus sono due cose distinte. In guerra, in ogni momento, non sai mai se quello dopo sarai ancora viva. Io la morte l’ho sentita addosso: una notte, nella grotta, entrò un tedesco. Voleva sparare su di me che ero sotto a una coperta ma mia zia ebbe la prontezza di scoprirmi e mi salvò. Io ora sono una signora: mangio e dormo tranquillamente. Chi non aveva niente, la fame eccome se la sentiva. La guerra è guerra».