Moussa N'diaye: "Così porto avanti il sogno di mio padre"

Romagna | 01 Marzo 2020 Mappamondo
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Silvia Manzani
«Mio padre ha sempre voluto diffondere e mostrare la cultura e la tradizione senegalesi: su questo, davvero, non ha mai mollato. Sono convinto che oggi, se potesse vedere il lavoro che stiamo portando avanti, ne sarebbe davvero felice». Moussa N’diaye, 35 anni, oggi vive tra Ravenna e il Senegal, da dove a tredici anni, insieme al fratello più piccolo, raggiunse il padre Mandiaye, che stava lavorando con il Teatro delle Albe: «Di lui sapevo che faceva l’attore ma io di teatro non sapevo nulla, me lo immaginavo più sugli schermi cinematografici. Solo quando mi sono trasferito in Italia ho iniziato a capire quale fosse il suo sogno, quello di costruire ponti attraverso il teatro, di mettere a confronto la cultura romagnola, italiana ed europea con quella del nostro Paese ma anche quello di combattere, attraverso la cultura, l’esodo rurale che stava colpendo il Senegal, dando ai giovani una seconda possibilità. Mi sono accorto allora di quanto fosse illuminato e lungimirante, tanto che quando nel 2014 è venuto a mancare, ho auto un momento di grande spaesamento e silenzio nel quale mi sono domandato che cosa potessi fare, io, per non fare morire tutto quello che mio padre era stato e aveva desiderato». 
Arrivato a Rimini nel 1989 dal villaggio di  Diol Kadd, passando per Tripoli e Messina, Mandiaye aveva l’obiettivo di giocare a calcio: «Pensava di dover raggiungere la Francia ma gli stregoni, in Senegal, gli avevano indicato la via dell’Italia. Peccato, però, che la vita qui fosse molto peggio di quella che aveva immaginato. E così, quando Marco Martinelli ed Ermanna Montanari si misero a cercare attori per lo spettacolo “Ruh. Romagna più Africa uguale”, lui si presentò in ritardo, descrivendosi come un grande attore anche se non aveva mai visto un teatro. Gli dissero che era fuori tempo massimo, che avevano già trovato. Ma poi un attore non arrivò per la firma del contratto e lo richiamarono. Iniziò così tutta la sua grande avventura». Talentuoso narratore, Mandiaye lavora poi al progetto «Terra, teatro e turismo» per far rinascere il suo villaggio natale fino a che, nel 2012, insieme a Ravenna Festival e a tre realtà del Mozambico, del Camerun e del Senegal vince un finanziamento europeo per «N.A.T. Project», la costruzione di una rete di giovani talenti africani nel campo del teatro, della musica, della danza: «Dal 2004, in ogni caso, mio padre era tornato quasi stabilmente in Senegal per lavorare con il teatro e la gente del posto. Quando dieci anni dopo è morto, Marco Martinelli mi ha fatto capire che se il motore di tutto il sogno di mio padre era stato il teatro, era su quella strada sulla quale avremmo dovuto proseguire, pur non avendo le sue stesse capacità. Così con Alessandro Argnani, che coordinava la «Non-scuola» delle Albe, decidemmo di lavorare su quella ormai consolidata metodologia, portandola in Senegal, formando delle guide del posto, organizzando laboratori». 
Ed è in quel contesto che nasce l’idea di scrivere e produrre «Thioro. Un cappuccetto senegalese» insieme al Teatro delle Albe/Ravenna Teatro e ad Accademia Perduta/Romagna Teatri: «Essendo senegalese, fin da piccolo ho sentito raccontare fiabe e miti. La storia di “Cappuccetto”, però, non la conoscevo bene. Quando l’ho scoperta, ho trovato davvero molte affinità con la mia cultura e ho pensato che l’avremmo potuta riscrivere, introducendo la iena al posto del lupo e valorizzando la figura della nonna, così centrale anche nella nostra tradizione». In tre anni, lo spettacolo ha girato l’Italia da Nord a Sud, con 175 date: «Ogni volta la reazione dei bambini e delle famiglie è sorprendente e tocchiamo con mano l’emozione del pubblico di aver trovato davanti a sé una savana immaginaria. Anche per chi non conosce l’Africa, “Thioro” lascia dentro qualcosa di molto forte. Senza contare che, a ogni replica, lo spettacolo cambia». Attivo nella parte organizzativa, Moussa ha imparato in questi anni l’importanza, nel teatro, dell’interscambiabilità: «Se c’è da risolvere una questione tecnica ci sono, se c’è da andare in scena idem. I progetti di mio padre non possono morire, da quando il cuore mi ha mostrato la via non posso più tornare indietro. Il lavoro che stiamo facendo anche con l’impresa culturale “KËR Théâtre Mandiaye N’diaye” è qualcosa di vero, di naturale e credo che questo valore si respiri. Non sento dentro di me una particolare eredità ma un sentimento molto forte che mi spinge a migliorarmi, per esempio sulla parte manageriale che nel teatro è fondamentale per mettere in risalto le proprie opere. Mentre continuiamo con “Thioro”, siamo già certi di voler lavorare intorno alla prossima idea». 
Nel frattempo, mentre vive a metà tra Ravenna e il Senegal, Moussa non smette di lavorare a un altro sogno: «Vicino al mare di Dakar, che è il luogo simbolo della nostra partenza, vorrei che un giorno sorgesse una casa del teatro intitolata a mio padre. Perché c’è davvero bisogno di coltivare la sua semina». Se dovesse indicare in che cosa Romagna e Senegal sono così vicini, invece, Moussa non avrebbe dubbi: «L’essere chiacchieroni, raccontatori. Il romagnolo delle campagne è un po’ come il Griot senegalese, l’uomo della parola. Sarà per questo che dopo un po’ che sono a Ravenna ho voglia di tornare a casa e dopo un po’ che sono in Senegal mi manca la Romagna. Certo, non è come quando sono arrivato io alla fine degli anni Novanta. Alla media Montanari gli stranieri erano due: io e un ragazzo metà marocchino e metà senegalese. Eravamo i diversi, mentre oggi nella stessa scuola ci sono facce di tutti i colori. Quando ci sono tornato, è stata una bella emozione».
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