Motori, il faentino Giraldi e un debutto speciale: «Dai salti nei rivali del fiume Lamone al sogno di correre la Dakar a 50 anni»

Romagna | 27 Dicembre 2022 Sport
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Tomaso Palli
Jader Giraldi, lei sarà il primo motociclista faentino alla Dakar. Emozioni?
«Tante. Ma mi sento pronto e ben allenato. A detta degli organizzatori sarà la più difficile dal 2014 con anche piccole modifiche nel regolamento come i percorsi mirroring (tappe in cui non esiste un’unica strada con l’obbligo di saper navigare in autonomia e senza seguire chi ti precede, ndr). Ma la Dakar è una gara piena di incognite e variabili, bisogna essere pronti a tutto, all’inaspettato. Da qui, non a caso, il nome del mio progetto». 
Ci spieghi. 
«Si chiamata Dealing With The Unexpected che, in italiano, significa allearsi con l’inaspettato. Ed ha proprio questo significato: essere pronto e preparato a risolvere qualunque problema possa manifestarsi durante l’evento. Abbiamo aperto una pagina Instagram, già attiva, dove sarà presente il racconto del mio quotidiano e ogni cosa legata al mio percorso nel Rally Dakar». 
Come è riuscito a trasformare il sogno in realtà?
«Credo nella lavorazione del sogno, nel progetto del sogno stesso. Se tu hai un obiettivo e non inizi a progettarlo, resterà sempre un sogno. Perciò, devi prima farlo diventare un progetto e poi trattarlo come un’attività lavorativa: ci vogliono budget, skills tecniche, esperienze e requisiti. Ho iniziato più di due anni fa senza aver mai partecipato a rally internazionali. Sono partito con il Rally di Andalusia, poi quello del Marocco e, infine, l’Abu Dhabi Desert che è una tappa del Mondiale tra le più dure ed estenuanti: portando a termine quella, un gradino sotto la Dakar, ero pronto. Per me, è stato un progetto extra lavorativo che si è inserito in parallelo a tutti gli altri. Alla fine, questo nuovo obiettivo mi ha permesso di fare ordine nel mio disordine e sono riuscito ad ottimizzare un tempo che buttavo via. Perché, a 50 anni, il tempo è sempre meno e… noi di tempo ne abbiamo poco ma anche tanto». 
Quale è stata la difficoltà più grande?
«Le prime esperienze sono state molto difficili per la gestione dell’energia, direttamente collegata alle competenze nutrizionali. E così ho iniziato a creare un team perché da solo non potevo farcela. Accanto a questo, anche la difficoltà di aumentare la velocità riuscendo a percorrere molti chilometri: ho fatto perciò tanto allenamento di cross e con altri rallisti per migliorare questi aspetti». 
Ha parlato di team: in quanti la seguono?
«Quattro. Ho un mental coach, Angelo Carnemolla, perché è fondamentale l’aspetto mentale sotto stress. Ci sono poi Francesco Cagnazzo, nutrizionista e farmacista, e Marco De Angelis, il preparatore sportivo. E infine, Pino Di Ionna che mi fa l’analisi dati di biofeedback e imposta la strategia di tutti gli altri». 
Tornando al sogno Dakar: da quanto era presente?
«Dai 15 anni. Nel rivalino del fiume Lamone, a Faenza, c’erano alcuni punti dove, al pomeriggio, ci si trovava per fare salti con le moto e sognare questi miti ammirati sulle pagine di MotoSprint, nel periodo invernale. Poi la vita mi ha portato da altre parti, a vivere altre vite. E, non a caso, dai 26 ai 44 anni, ho abbandonato la moto. Alla fine, mi sono ritrovato nelle condizioni economiche e con la stabilità familiare giusta per tornare in sella. Due anni fa mi sono detto: ho 48 anni, proviamoci». 
Aspetti mentali, fisici, atletici e… meccanici. 
«Ed è forse il mio punto un po’ debole, diciamo così. Ho fatto qualche corso di meccanica ma sono più un motociclista a cui piacere dare del gas. Ho però fatto formazione e sono in grado di sistemare… (pausa, ndr) diciamo l’80% delle cose che possono capitare e sono risolvibili da un pilota solo nel deserto. Con le altre cose sarò più in difficoltà, come quasi tutti. Ma capiremo come fare». 
Ha un significato il 125, suo numero di gara?
«Non subito, perché me l’ha assegnato l’organizzazione. Ma poi li ho trovati». 
Per esempio?
«Diversi. Sommando le cifre, il risultato è 8: l’infinito e la continuità di un progetto, il mio che andrà avanti a prescindere. Ma quello più bello è legato alla cultura ebraico-cattolica: il 125 rappresenta il messaggio che gli angeli inviano a una persona per dire di aver fiducia in se stessa e che potrà farcela».  
Farcela… ad arrivare in fondo. È il suo obiettivo? 
«È così! E non è scontato perché, mediamente, un pilota non professionista impiega tre o quattro edizioni per finirla. Per di più, mi sono scelto quella più dura degli ultimi dieci anni (ride, i). L’obiettivo è quindi finirla ma senza pretese di classifica: faccio la firma a chiuderla arrivando ultimo, ecco. Ma per me è già un’enorme soddisfazione esserci e aver raggiunto l’olimpiade del fuoristrada, e non è stato facile. Per me la Dakar è iniziata a luglio, quando mi hanno detto che mi avrebbero preso. Ogni giorno sono in gara: mi devo allenare, non mi devo far male e devo aggiungere elementi».
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Complimenti per il bell'esempio.
Commenta news 06/01/2023 - Sonja
Piu' che sport direi che si tratta di favorire il dissesto, gia' abbondante di per se', cosa abbastanza vergognosa. Poi ci si lamenta, ma nessuno controlla nulla.
Commenta news 04/01/2023 - simo
Ah, bene, si allenava nel rivalino del Lamone, pratica assolutamente vietata perche' provoca dissesto idrogeologico. Lo stesso vale per quelli che si divertono a scorrazzare nei campi.
Commenta news 27/12/2022 - Giannetto
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