Le prospettive del cinema post-pandemico secondo castellana Eva Sangiorgi, direttrice de La Viennale, sulle

Romagna | 30 Dicembre 2020 Cultura
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Federico Savini
«La nostra società si mescola, le differenze culturali e di ceto sono fatte per incontrarsi e quindi il cinema ha praticamente il “dovere” di essere un medium inclusivo. Può esserlo con una maggiore accessibilità economica e attraverso una serie di “eventi” che siano tali nel vero senso del termine, facendo incontrare le persone. Il cinema, in fondo, parla del mondo e degli uomini, quindi deve “convocare” le diversità e la società». Eva Sangiorgi, direttrice del festival cinematografico La Viennale, tenutosi in Austria a fine ottobre, ha una prospettiva molto interessante dalla quale guardare al futuro di un media - il cinema - che come la musica già scontava difficoltà strutturali e sul quale la pandemia si è abbattuta con particolare violenza, imponendo la chiusura delle sale di proiezione ma impattando nettamente anche sui festival, che rappresentano praticamente il sistema nevralgico del cinema d’autore e indipendente. Sono quindi eventi di particolare importanza nello scenario attuale, dominato più che mai dai grandi blockbuster e dalle multinazionali dello streaming televisivo e telefilmico; eventi che la pandemia ha costretto al confronto con le circostanze, e ad esempio anche i più recenti festival del cinema ravennati (il Nigthmare e le Visioni Fantastiche) hanno puntato pesantemente sullo streaming che, nel contempo, dà l’opportunità di espandere il proprio pubblico. Ma non senza qualche rischio.
Tornando alla castellana Eva Sangiorgi e alla sua Viennale, quel festival ha un legame praticamente «epidermico» con le sale cinematografiche della capitale austriaca, e l’edizione 2020 ha mantenuto fede alle radici. «La regola è stata quella che si è adottata un po’ ovunque - spiega Eva Sangiorgi -, un sostanziale dimezzamento dei posti con deroghe per i congiunti. La nostra politica anti-Covid è stata molto rigida sul tracciamento, proprio perché in qualche modo abbiamo legato insieme le sale della città».
La Viennale 2020 si è tenuta in presenza, coi posti distanziati ma le sale della città in qualche modo «legate» insieme. E ne avete raddoppiato il numero, giusto?
«Sì, ed è qualcosa a cui siamo giunti dopo mesi di riflessione, perché in aprile, in pieno lockdown, dovevamo prendere decisioni definitive sul budget, che è un po’ calato rispetto al normale, così abbiamo anzitutto ristretto il festival, da 14 a 11 giorni, ma abbiamo coinvolto 10 sale in diversi quartieri cittadini, spesso con 3, 4 o anche 5 ripetizioni dello stesso film, perché il pubblico di ogni proiezione era limitato. Questo a parte Miss Marx, il film d’apertura che ha avuto nove ripetizioni e che ci serviva per portare contemporaneamente il festival in tutta la città, in ogni sala. Simbolicamente ha tracciato una nuova mappa della Viennale ed è stato un evento nell’evento».
Mentre progettavate il festival avete praticamente visto saltare Cannes…
«Grossomodo le giornate erano quelle e da lì si è capito “quanto”, e lo sottolineo, l’anno cinematografico sarebbe stato anomalo, difficile e impegnativo. Tra l’altro di solito prendiamo molti film già passati da Cannes…».
Che tipo di risposta c’è stata da parte del pubblico? Quanto ha inciso la paura del contagio e quanto la voglia di tornare in sala?
«Ho visto bene ambo le cose, ma nel complesso la risposta è stata positiva al di là delle attese, perché se anche i biglietti strappati in totale sono stati circa la metà del solito, considerando le limitazioni ai posti disponibili devo dire che in % ne abbiamo venduti più del normale. Inoltre c’è stato un rinnovamento del pubblico, perché comprensibilmente quasi tutti gli anziani, a parte i cinefili più accaniti, sono rimasti a casa, mentre tanti giovani hanno frequentato assiduamente le sale. Bisogna anche contestualizzare al periodo: a fine ottobre vivevamo ancora l’onda lunga di quel moderato ottimismo che c’era stato in estate, i contagi ricominciavano a impennarsi nel resto d’Europa mentre noi aprivamo il festival».
La Viennale è una sorta di «summa» del meglio degli altri festival. Quali festival hai «frequentato», se così si può dire, quest’anno e come hai trovato l’offerta festivaliera?
«Hanno circolato meno cose e tanti festival sono stati sospesi, ridotti o rimandati. Anche certi film d’autore molto attesi, come il nuovo di Apichatpong Weerasethakul, sono ancora fermi. E’ stato comunque un anno interessante, con dinamiche nuove. A Venezia, per esempio, ultimamente il concorso era abbastanza occupato da Netflix, con i suoi film di punta ma anche un pacchetto di titoli più traballanti, ma quest’anno la piattaforma ha scelto di non portare film ai festival, comprandone solo alcuni. Questo ha lasciato spazio ad altre produzioni e abbiamo visto cinema d’autore anche abbastanza di nicchia trovare asilo in grandi sale, penso ad esempio a The Disciple di Chaitanya Tamhane»
In termini distributivi la pandemia ha sicuramente colpito il cinema mainstream, ma questo può in qualche misura avvantaggiare il cinema indipendente?
«Secondo me colpisce tutti nello stesso modo e, come in genere accade anche negli altri settori della cultura, le major possono permettersi anche di fare qualche flop, mentre una piccola produzione può non rialzarsi da un investimento che non dà frutti, e non li dà perché quest’anno le sale sono chiuse. Sempre per i “piccoli” e gli indipendenti, l’impossibilità di approdare in sala rischia concretamente di fare evaporare i finanziamenti pubblici che in genere mirano proprio a questo».
Tra i festival di quest’anno ce n’è stato qualcuno organizzato in maniera particolarmente efficace?
«In estate sono stata a Marsiglia e, pur con le sue piccole dimensioni, posso dire che si è lavorato bene, ma la svolta vera è arrivata con Venezia. Un festival di quelle dimensioni ha in qualche modo “rotto il ghiaccio” e fatto un lavoro egregio. Chiaramente c’era meno gente del normale, ma era tutto organizzato in modo perfetto, con accesso agile alle sale e un sistema efficientissimo per prenotare e cancellare le prenotazioni. Venezia ha dato a tutto il mondo del cinema un grande esempio di puntualità e organizzazione. Si respirava un bel clima perché erano tutti molto ligi alle regole ma nello stesso tempo, e forse proprio per questo, anche molto rilassati».
Chi ha organizzato festival solo in streaming, aprendosi magari anche a un pubblico nuovo, corre il rischio di allentare i legami col territorio?
«Questo è un problema chiave per i festival del cinema e ne ho parlato a lungo con tantissimi colleghi, specie in primavera. Fare un festival solo in digitale ha indubbi vantaggi e risponde in modo deciso all’emergenza sanitaria, ma poi diventa difficile giustificare i fondi, trovare gli sponsor e creare posti di lavoro. Non c’è una soluzione semplice e molto dipende dalla natura di un festival, se sia ad esempio molto legato a eventi e première. Per le caratteristiche che ha, La Viennale doveva essere in presenza, ma capisco scelte e posizioni diverse dalla mia. Non bisogna però prendere sotto gamba l’effetto a cui tu accenni, perché trasferendosi sul digitale si può perdere il senso dell’esclusività e lo scenario potrebbe evolvere velocemente verso festival che si divorano tra loro, con i più grossi che saranno avvantaggiatissimi, sia per il budget che per la dotazione tecnologica. In digitale tutto si somiglia, si perdono i legami territoriali e le specificità del pubblico. Noi lavoriamo invece sul “nostro” pubblico, lo conosciamo e ci cresciamo insieme. Il digitale si può comunque integrare, magari usando un “geo-blocking” che permetta di vedere un film in streaming solo in una certa regione».
Uscendo dal seminato dei festival, iniziative come «MioCinema» e «Io Resto in sala», che promuovevano film in streaming ma col biglietto venduto dalle sale, sono state il modo migliore per «integrare» sala e streaming o si poteva studiare altro?
«Sono state “un” modo di affrontare questo problema complicatissimo. Come dicevo, l’integrazione fra presenza e digitale è possibile, e ad esempio sempre a Venezia è stata sperimentata la “sala virtuale” per “Il tempo ritrovato”. Per i festival penso che l’evento debba rimanere centrale, mentre se parliamo di sale e programmazione normale, beh, è chiaro che il trasferimento totale in rete annulla il cinema stricto sensu, lo fa diventare pressoché identico alle piattaforme. Il problema che abbiamo, oggi più che mai, non è certo quello dei contenuti, visto che ce ne sono fin troppi (è di pochi giorni fa la notizia del malumore dei doppiatori italiani, travolti da inusitate moli di lavoro per via del successo delle serie tv, con ricadute negative sulla qualità del doppiaggio, nda). Il punto è che i film sono nati per essere proiettati e visti in sala. Si girano con una tecnologia video e audio che risalta in sala, questo non si può dimenticare, sennò non parliamo di cinema ma di un’altra cosa, e usciamo definitivamente dalla logica dei compromessi che naturalmente si possono fare, specie in emergenza».
E’ ipotizzabile, per le sale, un calo del prezzo dei biglietti?
«Io ero e resto dell’idea che ci si debba provare. A Parigi costano 10 euro, un po’ meno nelle piccole sale, a Vienna 9,5. Con questi prezzi è difficile che i più giovani, che magari hanno pochi soldi e abitudini consolidate a guardare video sul cellulare, si innamorino del cinema e prendano confidenza con le sale. Ribadisco che il cinema deve essere inclusivo e questa può essere una strada per renderlo tale».
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