La dottoressa faentina: "Concentrazione e voglia di non sbagliare"
Silvia Manzani
«Un periodo di così forte tensione in effetti no, non l’avevo mai vissuto. Non avevo mai sperimentato la necessità di un così rapido adattamento a una situazione completamente nuova e in continua evoluzione». Vittoria Bevilacqua, medico del reparto di Medicina interna dell’ospedale di Faenza, sta vivendo, insieme ai colleghi, tutto l’impatto che a livello operativo ma anche psicologico il Coronavirus ha significato per i sanitari: «La nostra reazione, per forza di cose, è stata rapida. Dopo le prime notizie su Codogno e la situazione in Lombardia, in febbraio, si è deciso di aprire una zona rossa dove riconoscere e “screenare” i pazienti positivi per poi indirizzarli negli ospedali Covid, quelli di Ravenna e Lugo, trasformando il nostro in un ospedale Covid-free. A quel punto, stilato il piano di emergenza, le abitudini sono cambiate moltissimo tra dispositivi di protezione individuale, operazioni di vestizione e svestizione, isolamento in camere singole, formazione sulla gestione dei pazienti. Anche per la nostra unità operativa, è stato un momento importante di riorganizzazione, che ha visto anche la chiusura delle attività ambulatoriali, così come la disponibilità di molti di noi a una reperibilità 24 ore su 24». Più che un forte stress, secondo Bevilacqua a fare da padrone sono stati il livello di concentrazione molto alto e la voglia di fare nel migliore dei modi: «Guardando quel che accadeva in Lombardia, la paura era quella di non essere pronti ad affrontare le drammatiche conseguenze del Coronavirus. Nella realtà, ciò non è avvenuto anche grazie alla collaborazione di tutti gli operatori coinvolti ai vari livelli e lavorando insieme momenti di desolazione e solitudine non li ho mai avuti». Alla lunga, per la dottoressa, il bagaglio di competenze acquisito in questi due mesi tornerà utile: «Nessuno di noi era mai stato davanti a una pandemia: abbiamo dovuto conoscere una malattia nuova e imparare a curarla giorno per giorno. Un momento di forte crescita che ci ha fatto capire l’importanza di metterci in gioco, non solo dal punto di vista clinico». Una lezione, infatti, gli operatori sanitari l’hanno avuta anche sul fronte umano: «Uno degli aspetti più delicati è senza dubbio la chiusura del reparto ai familiari, che ci ha fatto concentrare anche sull’importanza delle relazioni». D’altro canto, c’è la complessità di andare al lavoro sapendo di poter contrarre il virus: «Più che la paura è la consapevolezza di essere in un ambiente esposto e quindi a rischio, infettarsi significherebbe mettere a rischio i propri colleghi ed i pazienti oltre che non poter fare il proprio lavoro in questo periodo così difficile».