Ivano Marescotti racconta l'addio alle scene: «Tante soddisfazioni, da Benigni a Hopkins, ora mi fermo a Villanova di Bagnacavallo»

Romagna | 19 Febbraio 2022 Cultura
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Federico Savini
«Per alcuni anni, al principio degli ’80, ogni volta che andavo a trovare i miei genitori avevo gli occhi di mia madre puntati addosso. Quando mi chiedeva “Et magné?”, con quel misto di preoccupazione e apprensione che solo le mamme hanno, beh, lo chiedeva per davvero, non per convenzione. Non poteva credere che, facendo l’attore, io avessi di che riempirmi la pancia. E devo dire che, per un certo periodo, non fu proprio così facile». Oggi naturalmente Ivano Marescotti ci scherza su, ma quella fàm da cumigiànt che nella Romagna contadina è proverbiale, almeno un po’ lui l’ha provata per davvero. E dire che il popolare attore di Villanova di Bagnacavallo, che giusto una settimana fa annunciava sui social il suo ritiro dalle scene, di strada da quei giorni difficili ne ha fatta tanta. Quasi certamente più di ogni altro attore del nostro territorio, visto che insieme ai fasti teatrali (in scena ma anche come direttore del teatro Conselice) e alla meritoria opera di divulgazione su scala per lo meno romagnola del genio poetico di Raffaello Baldini, Marescotti ha recitato anche nel cinema a livelli altissimi: con alcuni fra i più grandi registi italiani e pure internazionali; in particolare con Ridley Scott, nel 2001, in Hannibal, ma nel 2004 ha avuto anche un piccolo ruolo in King Arthur, recitando nel 2007 anche per John Irvin. Per due volte al fianco di Roberto Benigni (Johnny Stecchino, 1991, e Il mostro, 1994) e altrettante con Checco Zalone (i primi due film), l’attore di Villanova ha debuttato su grande schermo nel ’90 con L’aria serena dell’ovest, di Silvio Soldini, recitando poi anche per Daniele Luchetti (Il portaborse), Marco Risi (Il muro di gomma), Pupi Avati (Dichiarazioni d’amore), Marco Tullio Giordana (Pasolini, un delitto italiano), Carlo Mazzacurati (Vesna va veloce), Maurizio Nichetti (Luna e l’altra) e Gabriele Muccino (A casa tutti bene), incassando un paio di Nastri d’argento e senza trascurare cult minori come il mitico Bérbablù di Luisa Pretolani e Massimiliano Valli (2004). Quarant’anni di carriera fra palchi e set, tra l’amore per la Romagna e l’orizzonte internazionale, che si interrompono di botto, con un annuncio sui social e l’idea di godersi la vecchiaia nella sua Villanova, portando comunque avanti l’esperienza del Teatro Accademia Marescotti.
«L’annuncio sui social network fa pensare ad una scelta fatta in due e due quattro - commenta Marescotti -, ma in realtà è già qualche anno che ci penso».
Non è stata, quindi, una specie di epifania, come quando si ritrovò sul palco quasi per caso, nel 1981, per poi decidere di fare della recitazione la sua vita…
«No, questa è stata una decisione meditata e ponderata. Non escludo che la pandemia abbia avuto il suo peso nella scelta. Lavorare in questi anni è complicato e nel complesso poco stimolante. Poi di proposte me ne arrivano sempre tante, anche per questo ho deciso di annunciare che smettevo di recitare. Lo vivo come il mio terzo periodo, dopo quello dell’attore, così lungo, imprevisto e gratificante, e la prima fase della mia vita, che mi portò ad occuparmi di urbanistica, per il Comune di Ravenna, fino ad oltre i 35 anni. Dopo di che, come si diceva, mi ritrovai quasi per caso sul palcoscenico. Ed è andata bene».
Prosegue però l’attività del Tam, giusto?
«Sì, il Teatro Accademia Marescotti è il filo rosso che porto come me dall’esperienza attoriale. La scuola segue una ventina di allievi e in marzo completeremo anche quest’annata, con un saggio “virtuale” in forma cinematografica, così da poter dare conto degli esiti del percorso. Mi ha dato grande soddisfazione fin qui, specie vedere alcuni ragazzi con carriere avviate fra teatro, fiction e cinema. Insieme al perfezionamento, la scuola gli ha permesso di entrare in contatto con professionisti del settore. Mi rivedo soprattutto in chi non sapeva di avere un talento e lo ha scoperto attraverso il Tam».
Un po’ come i suoi inizi, in sostituzione di un amico che non poteva recitare. Ma davvero non aveva  mai pensato al cinema?
«No, dico sul serio, non avevo alcuna vocazione. Diciamo che il mio talento, di cui non dovrei parlare io, è stato per fortuna notato da altri. Albertazzi, a metà degli anni ’80, disse che avevo una faccia che sembrava venir giù dal palcoscenico. E’ stato l’inizio del professionismo vero e proprio; poi ho avuto la fortuna di lavorare con altri grandi del teatro come Leo de Berardinis, Mario Martone e Carlo Cecchi. Ma davvero nella carriera da attore mi buttai come in acqua senza saper nuotare. All’età che avevo, poi, e con un lavoro sicuro buttato alle ortiche, o impari presto o affoghi».
La fame dei commedianti non è, insomma, un’antica leggenda romagnola…
«No, no, anche se è chiaro che non eravamo nell’800. Però, a Villanova, quando dicevo che avevo cambiato lavoro e facevo l’attore poi tutti mi chiedevano quale lavoro facessi “per vivere”. Credo che questo la dica lunga. Comunque, la mia carriera mi ha portato al di là di ogni aspettativa. Sono orgoglioso di aver conosciuto Anthony Hopkins ed essergli stato amico. Credo sia il più grande attore vivente, con The Father l’ha dimostrato un’altra volta».
È vero che ha rischiato di lavorare anche con Mel Gibson?
«Altro che rischiato, ero proprio già dentro il progetto! Il film era La passione di Cristo e io avevo fatto un provino per Ponzio Pilato, quindi pure un personaggio importante. Cosa posso dire… a Gibson piacqui tantissimo. Al punto che io, in quel periodo, ero in tournée, e Gibson arrivò a pagare la compagnia per ingaggiare un sostituito mentre io giravo il film. Solo che poi la lavorazione del film slittò, io presi nuovi impegni e quando Gibson mi richiamò non me la sentii di rompere un contratto un’altra volta, col pensiero che il film sarebbe potuto slittare di nuovo».
La passione per Raffaello Baldini, invece, che parte ha avuto nella sua carriera?
«È una delle tre grandi carreggiate che ho percorso, insieme al cinema e al teatro. Sono orgoglioso di aver contribuito a far conoscere Baldini per lo meno ai romagnoli. Negli anni ho scritto anche testi miei e credo di aver recitato in pubblico testi dialettali almeno 1.200 volte. Baldini non è mai mancato dagli spettacoli».
Non era mica tanto tipico, nella Romagna di trent’anni fa, proporre recital di poesia dialettale. Quell’intuizione ha fatto la storia…
«Credo l’abbia fatta proprio ‘tecnicamente’, se ne parla anche in qualche libro. Avere da Lello Baldini il permesso di tradurlo in ravennate è stato un primo passo. Devo poi dire che gli spettacoli sono andati sempre bene, da subito. A seconda delle capienze, avevo dai 400 fino ai 3mila spettatori per dei recital in romagnolo. Prima di quegli spettacoli credo che Baldini lo conoscessero giusto alcune centinaia di persone, anche perché lui era uno schivo, che come poeta esordì avanti con gli anni, peggio di me! Oggi credo che almeno mezzo milione di romagnoli sappiano chi è Raffaello Baldini e qualc contributo ha dato a una poesia, quella romagnola in dialetto, che nasce in pratica a fine ‘800 e proprio con lui ha toccato vette ineguagliate. Sono felice che i recital di poesia dialettale siano diventati un vero e proprio genere in Romagna».
Tornando al cinema, pensa ci sia almeno un suo film che avrebbe meritato miglior fortuna?
«Se devo dirne uno non non ho dubbi: Strane storie di Sandro Baldoni, nel quale interpretavo quattro personaggi. Penso sia un capolavoro, più attuale oggi di allora. E devo dire che i pochi fan che il film ha racimolato negli anni sono accaniti. Se per caso vi ritrovate il Vhs di Strane storie che a suo tempo uscì con Repubblica tenetevelo stretto».
Ha lavorato sia con Benigni che con Zalone. Le interessa l’evoluzione della comicità?
«Racconta molto degli italiani e qui parliamo di due fuoriclasse, tra i grandi degli ultimi decenni. Benigni non ha bisogno delle mie lodi e Zalone non va sottovalutato: la sua comicità graffiante colpisce i nervi scoperti del mondo di oggi. Usa con efficacia un approccio non del tutto inedito, che fu anche un po’ quello di Alberto Sordi con la sua satira scorretta sui vizi dell’italiano medio. Quando ci riconosciamo in lui è perché ha raggiunto l’obiettivo».
Il ritorno a Villanova di Bagnacavallo è recente. E’ il posto giusto per il suo terzo tempo?
«Sono tornato a Villanova da due anni. Può sembrare una cosa anomala per chi ha avuto una carriera come la mia e quando, sui social, citavo Jack Nicholson ero ironico ma anche serio. Nel senso che lui a 73 anni è uscito di scena e da allora si gode la pensione. Ecco, io penso che ogni età della vita abbia in serbo le sue gioie. Sarà un ultimo atto, il terzo come a teatro, ed è tutto da scoprire perché anche la terza età è una “prima volta” per tutti quelli che ci arrivano. Va affrontata con la curiosità che merita».
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