Il nuovo libro di Eraldo Baldini documenta le «feste crudeli» di Romagna, di cui facevano spesso le spese gli animali

Romagna | 31 Ottobre 2022 Cultura
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Federico Savini
«Credo che una ricerca sulle feste e i passatempi più “feroci” che in passato facevano parte della vita degli uomini, in Romagna, non fosse mai stata fatta. Ed emerge un quadro piuttosto brutale, lontano anni luce dalla mentalità di oggi. Specialmente se pensiamo ai bambini, veri protagonisti di molte delle cose che racconto. Il concetto di fondo era che non dovevano avere troppa paura della violenza, perché sarebbe stato utile nella vita prendere dimestichezza con il “sangue necessario”». È quanto mai efficace l’espressione usata da Eraldo Baldini per raccontare, con parole lontanissime dalla nostra sensibilità, ciò che permeava la mentalità e le priorità di vita dei nostri antenati di solo poche generazioni indietro.
Nel suo nuovo libro, uscito su Pendragon e intitolato Feste crudeli e giochi di sangue, l’antropologo e romanziere di San Pancrazio prosegue il suo inesausto scandaglio dell’antropologia romagnola, aggiungendo un tassello al filone dei suoi libri dedicati al Carnevale, a San Martino e insomma agli aspetti crudeli, violenti e di sfogo che per secoli hanno accompagnato i rituali sociali e le abitudini quotidiane dei contadini di Romagna.
«Il libro è sostanzialmente diviso in due parti - spiega Baldini -, la prima delle quali riguarda proprio le “forme crudeli del celebrativo” dal punto di vista materiale, mentre la seconda riguarda forme di violenza più psicologiche».
Ma quindi anche cose come la fasulera?
«Quella rientra in questo secondo gruppo e colpiva le donne celibi, additandole come irresponsabili, o peggio, nei confronti di una società molto maschilista. Nella festa dei becchi ci sono altri aspetti di questi fenomeni riconducibili allo “charivari”, in sostanza la condanna sociale per chi trasgrediva le leggi non scritte. Queste persone venivano messe al bando, subivano forme di bullismo accettate dalla società. Si tratta di forme della tradizione che oggi ripudiamo nel modo più assoluto».
Tanto che nel libro documenti anche tantissime feste violente in modo assolutamente fisico…
«Sì, spesso con protagonisti gli animali, autentici capri espiatori destinati a una brutta fine. La caccia al toro, per Carnevale o in altre festività, si praticava in tutta Europa e non era quindi un’esclusiva della Corrida spagnola. Contro l’animale venivano aizzati dei cani per divertire il pubblico con la sua uccisione. Nelle corse dei cavalli berberi era la norma che qualche animale morisse schiantandosi sul perimetro cittadino, in incidenti che spesso coinvolgevano anche gli spettatori. Nelle sagre c’erano spesso giochi che prevedevano di tirare il collo all’oca, magari per provare la propria abilità, o di appendere altri animali per le zampe. I buoi di Pasqua venivano fatti girare in paese per raccogliere simbolicamente i peccati della gente, prima di essere uccisi. Battagliole simile a quella delle arance di Ivrea c’erano anche dalla nostre parti, servivano per sfogare ed esercitare la violenza».
La mia generazione ha conosciuto nonne che potevano anche affezionarsi a un animale domestico, ma poi tirare il collo a un pollo non creava loro nessun problema…
«Io stesso, che sono cresciuto in campagna tra gli anni ’50 e ’60, tenevo il coniglio per le gambe mentre mio nonno lo uccideva. E ho partecipato anche alle cruente uccisioni dei maiali. Il nostro concetto di animale di compagnia non c’era e anche il cane era inquadrato soprattutto per la sua utilità, come cacciatore, guardia alla catena, procacciatore di tartufi o guardiano di pecore. Non significa, però, che non ci fosse un affetto. Ad esempio a casa mia ogni anno allevavamo due maiali, a cui davamo sempre i nomi e tutto sommato li trattavamo bene. Però il loro destino era segnato, ma la cosa non causava traumi. Neanche a noi bambini».
I bambini quindi avevano un ruolo importante?
«Sì, perché per quanto oggi sembri assurdo si annidava una forma di “pedagogia” nel coinvolgimento dei bambini in questi atti violenti. Per loro erano quasi forme di “addestramento” per prepararsi ad affrontare una società molto violenta. La macellazione domestica degli animali era all’ordine del giorno nello stesso modo in cui lo erano le esecuzioni pubbliche in piazza. Dedico un intero capitolo ai giochi dei bambini: gonfiare la rana fino a farla scoppiate era un comportamento per il quale non si veniva sgridati…».
Ma la finalità era comunque questione più pratica che sadica.
«Sì, semplicemente non esisteva il concetto culturale di porre una barriera alla violenza, perché quella faceva parte eccome della società di allora. Credo che il sadismo sia un fatto personale, non sociale».
Quand’è che abbiamo cominciato a trovare aberranti, anziché divertenti, queste cose?
«Non c’è una risposta che valga per tutti i luoghi e i gruppi sociali, ma senz’altro la Seconda Guerra Mondiale è stata uno spartiacque cruciale nella percezione della violenza e della sua utilità, tanto più che ne è subito seguita l’evoluzione della società urbana e dei consumi. Il contesto è quello del declino della società contadina con conseguente aumento della scolarizzazione, che prima del Dopoguerra era un fenomeno al quale i contadini erano sostanzialmente estranei. La violenza era utile e consona a contesti politici di tipo autoritario, se non proprio feudale, quale c’erano frizioni continue tra comunità vicine. Quando è prevalsa una nuova mentalità è cambiata la considerazione che abbiamo sulla violenza».
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