Il marradese Stefano Mordini ha diretto «Adorazione» per Netflix: «Giovani e adulti, racconto entrambi»

Federico Savini
«Quando si parla di “Young Adult” per definire una tipologia di prodotti di intrattenimento, quasi sempre si pensa a qualcosa che riguarda principalmente i giovani, e ad uscirne sono spesso opere sbilanciate dal punto di vista generazionale e dell’aspettativa del pubblico. Ecco, quello che volevo fare con Adorazione era proprio parlare sia ai ragazzi che agli adulti, creare il terreno per un confronto vero». Anche se per la prima volta ha diretto una serie non sceneggiata da lui, Stefano Mordini ha le idee piuttosto chiare su quali fossero gli obiettivi di Adorazione, la serie Netflix che sta calamitando molto interesse in queste settimane. E dietro alla quale c’è proprio il regista di origini marradesi e legatissimo a Ravenna Stefano Mordini, messosi in luce sul proscenio nazionale fin dai tempi di Provincia meccanica, vent’anni fa, per poi diventare uno dei registi più attivi e impegnati su progetti ambiziosi del panorama italiano, vedi film come Acciaio (2012), Pericle il nero (2016), Lasciami andare (2020), il recente Race for Glory: Audi vs. Lancia (2024) e soprattutto La scuola cattolica (2021), che per temi e dinamiche ricorda molto Adorazione.
La serie Netflix è tratta dall’omonimo romanzo di Alice Urciolo con protagonista un gruppo di ragazze e ragazzi per lo più benestanti della provincia dell’Agro Pontino, la cui vita viene sconvolta dalla scomparsa di una di loro. Il che innescherà terribili dinamiche relazionali e psicologiche, anche al di fuori della loro cerchia.
«Per me la novità principale è stata non avere scritto la sceneggiatura, che è di Donatella Diamanti, Giovanni Galassi e Tommaso Matano - spiega Mordini -. Non avevo, in realtà, voglia di girare una serie ma il produttore Roberto Sessa me l’ha proposta con insistenza, dicendo che era molto adatta a me».
Avrà pensato a La scuola cattolica. E com’era la sceneggiatura?
«Buona, speravo di no ma era davvero buona - ride, nda -. Sono stato costretto ad accettare e così mi sono focalizzato sulla responsabilità di dare alla sceneggiatura una scrittura visiva, che è cosa diversa dalla regia. Parlo di un “racconto visivo” che aiuti a “illuminare” la storia. Quanto a La scuola cattolica, è vero, ci sono evidenti affinità tematiche, e anche con altri miei film. Adorazione è una storia di provincia, un meccanismo in cui la cronaca ci racconta fatti terribili ma la cosa interessante per me è poi entrare negli aspetti emotivi e nelle responsabilità e nelle relazioni individuali».
C’è infatti un evidente interesse per la dimensione esistenziale e psicologica, pure in un quadro che rimanda al crime…
«Secondo me è più corretto parlare di “relazionale” come tipologia di serie. Nel senso che l’aspetto criminale chiaramente c’è, ma ne approfittiamo per raccontare le relazioni tra i personaggi. Non ci focalizziamo sulla ricostruzione dei fatti, che è tipica del crime. Il punto focale è la tessitura delle istanze emotive, vedere come adolescenti e adulti si relazionano dopo questo omicidio. Cerco l’equilibrio tra i giovani e gli adulti, è la sfida più difficile di questo progetto».
Anche il tema della provincia torna in molti suoi lavori. Potrebbe sembrare un territorio più «protetto» rispetto ad una grande città. Ma è sempre così?
«Credo che siano le persone a fare i luoghi e la loro cultura. Sicuramente la provincia dilata i ritmi frenetici della città, e questo Alice Urciolo lo sa raccontare molto bene. L’ossimoro su cui si fonda la mia idea della provincia è quello di un luogo in cui ti senti sempre osservato e nello stesso tempo abbandonato. Non dipende in prima istanza dalla geografia; io vengo da Marradi e quindi da una piccola comunità, ma in fondo anche Roma è una città di quartieri abbastanza impermeabili».
Pensando a diversi suoi film mi riecheggia il titolo di una vecchia pellicola di Oshima, il Racconto crudele della giovinezza. Da una parte il suo cinema appare molto sensibile alle istanze degli adolescenti ma dall’altra rappresenta i giovani senza edulcorazioni. Secondo lei i grandi media stanno raccontando bene le nuove generazioni?
«Io credo che i giovani si raccontino bene da soli. Rispetto a quando ero ragazzo io, hanno i mezzi per farlo. Sto parlando dei social, che gli permettono di raccontarsi fra loro ma anche alle altre generazioni. E vedo che questo aiuta molti di loro ad avere una consapevolezza e una proprietà di linguaggio che io alla loro età mi sarei sognato. Quello che mi sento di dire è che abbiamo la possibilità di ascoltare direttamente la loro voce e vedere il loro mondo. Approfittiamone. Tornando al cinema, io sul set lascio molto spazio in particolare agli attori giovani, soprattutto perché l’età gli dà fiducia e coraggio in quel che vogliono dire. Se li stiamo raccontando bene credo che, prosaicamente, lo capiremo quando cresceranno. Saranno loro a dircelo».