Il velista Pedote torna ad affrontare il Vendée globe, considerato come l’Everest dei mari tra solitudine e salsedine

Matteo Loli - La mattina del 4 febbraio 2025, dopo 85 giorni di navigazione in solitaria, ha tagliato il traguardo del Vendée globe Giancarlo Pedote, unico italiano a riuscire nell’impresa per ben due volte. «Il Vendée è un viaggio all’interno di te stesso» afferma Pedote che, oltre a essere uno tra i velisti più importanti del nostro tempo, è laureato in filosofia, materia che lo ha aiutato a sviluppare un metodo di preparazione per le sue regate. Everest des mers viene chiamata questa competizione negli ambienti della vela oceanica. Pochi altri nomi potrebbe avere, d’altronde, una regata che si sviluppa su un percorso di quasi 25000 miglia (circa 45000 chilometri) intorno al globo, in solitario, senza scalo e senza assistenza. Tre sono le priorità che, prima della partenza, Pedote ha scritto con un pennarello su Prysmian, la sua imbarcazione. Priorità diverse da quelle che potremmo aspettarci da un atleta in una competizione sportiva: la prima, portare a casa la pelle, seconda, portare a casa la barca, e, solo per terza, vincere. Il vendée nasce da un’idea di Philippe Jeantot, navigatore anch’egli che, non contento della formula a tappe delle regate transoceaniche già esistenti, decide di istituire una competizione senza scalo, che si inaugura per la prima volta nell’inverno a cavallo tra il 1989 e il 1990 e che, a partire dalla seconda edizione del 1992/1993, si svolge regolarmente ogni quattro anni. La regata prende il nome dalla regione francese culla della vela oceanica mondiale, la Vandea, nella quale anche Pedote, fiorentino di nascita, si è trasferito da qualche anno. I 40 velisti in gara navigano su delle Imoca 60, imbarcazioni di oltre 18 metri, che per varie settimane diventano le case degli skipper in gara: il comfort non esiste, pochi metri quadrati diventano letto, ufficio, salotto, officina e cabina di comando dei marinai. Pedote cucina con un fornellino installato su un cestello basculante, che mantiene il pentolino in equilibrio anche con le onde; la routine terrestre si dimentica, giorno e notte diventano relativi, il mare non concede tregua neanche col buio, le ore di sonno sono frazionate in brevi riposi di venti, trenta o quaranta minuti che si alternano con ore di lavoro, controllo delle vele, sistemazione del pozzetto, ma bisogna essere pronti a ore di fatica senza sosta quando necessario. Il letto non è che una semplice brandina con un sottile materasso e una fascia per tenere fermo il marinaio, anche quando le onde rendono la barca una lavatrice in centrifuga. Durante il Vendée «uomo e barca diventano un’unica creatura come il centauro» spiega Pedote in uno dei brevi video che ha pubblicato sui social, come diario di bordo, durante i giorni di regata. Il velista è partito, insieme agli altri skipper in gara, lo scorso 10 novembre da Les Sables-d’Olonne, passando poi al largo di Finisterre, in Spagna, dove ha dovuto effettuare una riparazione a una vela: una singola operazione costata oltre 14 ore di lavoro, spiega nel suo video-diario di bordo. Il primo traguardo è il passaggio dell’equatore e l’entrata nell’emisfero sud. Il 6 dicembre passa il Capo di Buona Speranza, con l’entrata «nel grande sud, un luogo inospitale». Il velista è costretto a stare in pozzetto con un caschetto protettivo perché il mare e le onde incrociate rendono pericoloso qualsiasi movimento a bordo. «Nell’ oceano indiano» afferma Pedote «un fortissimo senso di solitudine ti ingoia come una voragine. Tutto ciò ti porta in uno stato di vulnerabilità, che la società di oggi vuole evitare. È il senso con cui l’uomo è nato, sempre in pericolo. Vivere completamente sconnessi da questo sentimento toglie all’uomo un’opportunità di incontro con sé stesso». La navigazione prosegue tortuosa fino al capo di Leewin a sud-ovest dell’Australia, con un natale e il compleanno (26 dicembre) festeggiato da solo in mezzo al Pacifico. Il 31 dicembre Pedote è poco distante dal punto Nemo, il punto dell’oceano più lontano da qualsiasi terra emersa. Ipoteticamente, quando si naviga in quelle acque, gli esseri umani più vicini sono gli astronauti della stazione spaziale internazionale. In queste circostanze, le prime due priorità dello skipper italiano assumono un significato molto più concreto: in caso di guasto i soccorsi impiegherebbero forse settimane ad arrivare e riportare la barca a casa rimarrebbe un’utopia. A inizio gennaio, Pedote doppia Capo Horn ed entra nell’Atlantico, il mare di casa, ma per rientrare in Guascogna serve ancora un mese di navigazione. Questa edizione si è dimostrata forse più complessa dell’esordio di quattro anni fa, ma Pedote è riuscito a concluderla, cosa tutt’altro che scontata, classificandosi al ventiduesimo posto. Un’impresa che ha tanto da insegnare anche ai molti che lo hanno seguito da casa. «Il mio è un concetto di felicità leopardiano - spiega Pedote nel diario di bordo - la mia felicità è accendere il motore per caricare le batterie, o un raggio di sole o mettere del talco sul cuscino quando è umido, o pensare a un momento felice: sono dei lampi di felicità. Tornare alla normalità, forse, sarà per me la plenitudine».